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70. Immortalità dell'uomo arguita dalla sua inevitabile infelicità nella vita presente, e dal suicidio.

Immortality of man inferred from his inevitable unhappiness in present life, and from suicide.

40

[40,1]  Una delle grandi prove dell'immortalità dell'anima è la infelicità dell'uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza de' mali (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l'impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d'infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra che lo porta, nè si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti, perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura, che vi sia un animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e una specie di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionato[proporzionata] all'essere di quella tale sostanza (che per l'uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè un uomo disperato della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n'annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s'uccide come vediamo che fa (impossibile ne' bruti). L'uccidersi dell'uomo è una {gran} prova della sua immortalità. {{V. Notte Romana 5, colloquio 6.}}

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