27. Agos. 1821.
[1573,1] Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto
nell'eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle
altrui, e che la mente loro semper divinum
aliquid atque infinitum desiderat,
*
a cui le forze
dell'eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte,
alla critica, al gusto.
[1573,2] Ma ora lo considero in quanto ha relazione a quel
perpetuo desiderio e scontentezza che lasciano, siccome tutti i piaceri,
1574 così quelli che derivano dalla lettura, e da
qualunque genere di studio; ed in quanto si può riferire a quella inclinazione e
spasimo dell'uomo verso l'infinito, che gli antichi, anche filosofi, poche volte
e confusamente esprimono, perchè le loro sensazioni essendo tanto più vaste e
più forti, le loro idee tanto meno limitate e definite dalla scienza, la loro
vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto maggiori le distrazioni de'
desiderii, che la detta inclinazione e desiderio non potevano sentirlo in un
modo così chiaro e definito come noi lo
sentiamo.
[1574,1] Osservo però che non solo gli studi soddisfanno più di qualunque altro
piacere, e ne dura più il gusto, e l'appetito ec. ma che fra tutte le letture,
quella che meno lascia l'animo desideroso del piacere, è la lettura della vera
poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l'animo d'idee vaghe e
indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si
possa a questo mondo. Così che Cicerone
1575 non avrebbe forse potuto dire della poesia ciò che
disse dell'eloquenza. Ben è vero che questa è proprietà del genere, e non del
poeta individualmente, e non deriva dall'arte sua, ma dalla materia che tratta.
Certo è che un poeta con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può
lasciare un assai minor vôto nell'animo, di quello che possa il più grande
oratore; e produr ne' lettori quel sentimento che Cicerone esprime, in assai minor grado. (27.
Agos. 1821.).