8-10 Gennaio, 1819.
[39,1]
Dice Bacone da Verulamio che Q37388tutte le facoltà ridotte ad arte
steriliscono. Della quale verissima sentenza farò un
breve commento applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà
ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi,
come trovavano quando ell'erano ancora informi, e senza nome e senza leggi
proprie ec. e di ciò mi sovvengono
(verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che {quasi} nessuno
pensa più ad accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e che si ha
per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa già
compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte; ma ciascuno che
capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il cervello per ampliarla
perchè non avea nome d'esser arte; quando l'ha avuto quando anche in fatti non
sia più ricca di prima, par ch'ell'abbia già il tutto. La 2. (e questa è
relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto il
volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente
delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite di
mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo
pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi,
insomma la 2.da ragione è la pedanteria. La 3. più comune alle persone di senno
e giudiziose {e capaci, e anche esimie} è il costume e
l'abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte agli
altri. A se, perchè coll'abito preso di leggere di sentire di scrivere quella
tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti quantunque non
siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non ardiscono di
abbandonare le[la] consuetudine corrente, e
quantunque non sieno schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche
poesia non si risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite,
dovendo pubblicare un'azione drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la
facessero di capriccio e senz'adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi
le risa o il biasimo universale, se componessero un poema epico di forma
differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo
con ragione che dovrebbero essere ripresi d'aver barattati i nomi, non
ricevendosi per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E così
è in fatti che se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta
quello che si suole intendere per tragedia, e trovando cosa tutta differente se
ne ride. Nè senza ragione perchè il danno dell'età nostra è che la poesia sia
già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna
rompere violare disprezzare lasciare da parte intieramente i costumi e le
abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti, cosa difficile a
fare, e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perchè le
consuetudini vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono
le poesie, nè va ingannato il pubblico con nomi falsi.
40
E dare una nuova poesia senza nome affatto {e} che non
possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensì, ma di un ardire
difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non solamente
immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più forte, e la più considerabile, che
quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta
da ogni forma da ogni consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua
propria, senza nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente
originale, o almeno ad esserlo come gli antichi, perchè a ogni momento anche
senz'avvedersene, senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle
forme, in quegli usi, in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in
quelle immagini, in quei generi ec. ec. come un riozzolo d'acqua che corra per
un luogo dov'è passata altr'acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e
ricadrà nella strada ch'è restata bagnata dall'acqua precedente. Giacchè la
natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se un
poeta non fosse stato conosciuto dall'altro appena si sarebbero trovati due
poeti che avessero fatti poemi somiglianti {perchè questo non
sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili
combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere.} Perciò
quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora un'altra tragedia senza forme
senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni
composizione. Così Omero scrivendo i
suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che
gli pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi
anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo
modo i poeti antichi difficilmente s'imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre
originali, e s'erano simili era caso. Ma ora con tanti usi con tanti esempi, con
tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec. per quanto un
poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna, mentre
la natura non opera più da se, sempre naturalmente e necessariamente influiscono
sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l'efficacia della
natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i
tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza
sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre nuove, e non
tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.
[40,1] Una delle grandi prove dell'immortalità dell'anima è la
infelicità dell'uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici,
quando la previdenza de' mali (che nelle bestie non è) le passioni, la
scontentezza del presente, l'impossibilità di appagare i propri desideri e tutte
le altre sorgenti d'infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente
per natura nostra che lo porta, nè si può mutare. Cosa la quale dimostra che la
nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei
bruti, perchè ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte
le opere della natura, che vi sia un animale, e questo il più perfetto di tutti,
anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda
in se una sostanziale infelicità, e una specie di contraddizione colla sua
esistenza al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità
proporzionato[proporzionata] all'essere di
quella tale sostanza (che per l'uomo è impossibile di conseguire) e una
contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti
gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè un uomo disperato
della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n'annoia, ne
patisce (cosa snaturata) e s'uccide come vediamo che fa (impossibile ne' bruti).
L'uccidersi dell'uomo è una {gran} prova della sua
immortalità. {{V.
Notte Romana 5, colloquio 6.}}
[41,1]
41 La prima donna (del teatro, attempata) non vuol
recedere dagli antichi suoi
diritti.
[41,2] Quello che ho detto {qui sopra}
della difficoltà d'astenersi dall'imitare è confermato e dall'esempio del Metastasio che se è vero quello che dice
il Calsabigi
{nella lettera all'Alfieri} non volle mai leggere tragedie francesi,
e da quello che scrive l'Alfieri di se nella sua vita, e tra l'altro del Caluso che gli negò una
tragedia del Voltaire ch'egli volea
leggere mentre stava per comporne un'altra sullo stesso argomento.
[41,3] C'è una differenza grandissima tra il ridicolo degli
antichi comici greci e latini di Luciano ec. e quello de' moderni massimamente francesi. La differenza
si conosce benissimo e dà negli occhi immediatamente. Ma quanto all'analizzarla
e diffinire in che consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi
consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole. (e quando dico
moderno intendo principalmente le più moderne {commedie
satire e altri scritti ridicoli} giacchè il Goldoni p. e. ne aveva di quel ridicolo antico e
attico e così le più antiche nostre commedie e il Berni
{ec.} a differenza credo dei francesi anche antichi
come il Boileau ec.) Quello degli
antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per
dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento
{un soffio} un fumo. Quello empieva di riso, questo
appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace, quello
durevole materia di riso inestinguibile, questo al contrario. Quello consisteva
in immagini, similitudini paragoni, racconti insomma cose ridicole, questo in
parole, generalmente e sommariamente parlando, e nasce da quella tal
composizione di voci da quell'equivoco, da quella tale allusione di parole, da
quel giucolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che togliete
quella allusioni[allusione], scomponete e
ordinate diversamente quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una
parola in cambio d'un'altra, svanisce il ridicolo. Ma quel de' greci e latini è
solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come
quando Luciano
{nel Ζεὺς ἐλεγχόμενος}
paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna
del pescatore. Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di
queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così
recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone Comico appo il Vettori
Var. Lect. l. 18. c. 17. E la
novità era cosa ordinarissima nel ridicolo degli antichi comici {secondo la forza comica di ciascheduno} E quando anche
non ci fossero immagini similitudini
ec. sempre quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che
non il moderno. Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai francesi par
grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci,
popolo il più civile dell'antichità, e a' latini. E può essere che anche Orazio avesse una simile opinione quando disse male de' sali di
Plauto (esemplare di quel ridicolo
ch'io dico tra' latini) e
42 infatti le Satire e l'Epistole
d'Orazio non sono {di} così solido {ridicolo} come
l'antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga, così sottile come il
moderno. Ora a forza di motti s'è renduto spirituale anche il ridicolo,
assottigliato tanto che omai non è più nè pur liquore ma un etere un vapore, e
questo solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e
di vero buon tuono, e degno del bel mondo e della civile conversazione. Il
ridicolo nelle antiche commedie nasceva anche molto dalle operazioni stesse
ch'erano introdotti a fare i personaggi sulla scena, e quivi ancora era non
piccola sorgente di sale, nella pura azione, come nelle Cerimonie del
Maffei commedia piena
di vero e antico ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine d'evitare i complimenti alle porte.
Un'altra gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era
preso da cose popolari o domestiche o almeno non della più fina conversazione,
la quale poi non esisteva allora per lo meno così raffinata; ma il moderno
massime il francese versa principalmente in torno al più squisito mondo, alle
cose dei nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane
ec. ec. (come anche proporzionatamente era il ridicolo d'Orazio) sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e
come {il} filo {d'un'arma che non
sia} troppo aguzzo, dura lungo tempo, dove quello come ha una punta
sottilissima, (più o meno, secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter
d'occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio
del rasoio a prima giunta.
[42,1] Un'altra prova dell'esser la nostra lingua italiana
derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle
parole antichissime {Latine} poi andate in disuso
presso gli scrittori, che ora si trovano nell'italiano, le quali è manifesto che
con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a
noi, perchè nessuno certo l'è andato a pescare negli scrittori antichissimi
latini perduti poi ancora prima del nascere della nr̃a[nostra] lingua, come Lucilio
Ennio
Nevio ec. Di maniera che tra questi
antichi che le usavano e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun
intervallo voto, perchè non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia
un caso, il che non si lascerà credere appena agli Epicurei. Dunque non
essendoci altra catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè
gli scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore
e propagatore all'italiano di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi
disusata, poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano, (v. il Du
Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così
per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino-barbari non la
trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o
tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la quale non
può esser altro che il popolare latino. E questo credo che si possa parimente
dire di moltissime altre voci.
[43,1]
43 Diceva un marito geloso alla moglie: Non {t'}accorgi, Diavolo che sei, {che tu sei} bella come
un Angelo?
[43,2] Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si
dispera d'averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi.