Fir. 30. Giu. 1828.
[4310,1] Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d'attraits, più d'illecebre, ed è più atta a ispirare, e
maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche
nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma {veramente} una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne' suoi
moti, {nelle sue voci, salti ec.} un non so che di
divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo
gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore
purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume
che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei
e per lei; quell'aria d'innocenza, d'ignoranza completa del male, delle
sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita;
tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in
voi un'impressione così viva, così profonda, così {ineffabile,} che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io {non} conosco cosa che più di questa sia capace di
elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli,
di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto
4311
questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder
quell'oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo
modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera {diversa
e} superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in
quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più
inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza
seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di
16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle
sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della
vanità di quelle care speranze, {+della
indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle
bellezze;} si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un
sentimento di compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la
sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla
mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.
(Fir. 30. Giu. 1828).