16. Luglio. 1822.
[2566,1]
2566 È egli possibile che nella morte v'abbia niente di vivo?
anzi ch'ella sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere che
la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo?
Quando tutti i sentimenti vitali, e {soli} capaci del
dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno o
nell'asfissia ec. (ne' quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec. o
non danno dolore, o ne danno meno dell'ordinario, in proporzione
dell'intorpidimento, della gravezza p. e. del sonno, ch'è minore o maggiore,
com'è somma nell'ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il meno suscettibili e vivi
che si possa mai pensare, essendo quello il punto in cui si spengono per sempre,
e lasciano d'esser sentimenti. Il punto in cui la capacità di sentir dolore
s'estingue interamente, ha da esser un punto di sommo dolore? Anzi non può esser
nemmeno di dolore comunque, non potendosi concepir
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l'idea del dolore, se non come di una cosa viva, e il vivo è inseparabile dal
dal dolore, essendo questo un irritamento, un aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa di cui non sono capaci nel punto in
cui in vece di risentirsi, si dissentono per sempre. Così non si dee
creder nemmeno che quel piacer fisico ch'io affermo esser nella morte, sia un
piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a differenza del dolore, opera
languidamente sui sensi, anzi osservate che il piacer fisico per lo più consiste
in qualche specie di languore, e il languor de' sensi è un piacere esso stesso.
Però i sentimenti ne son capaci anche estinguendosi, e perciò medesimo che si
estinguono. (16. Luglio. 1822.).