5-6. Aprile. 1825.
[4127,9]
D. Le plaisir
est-il l'objet principal et immédiate[immédiat] de notre existence, comme l'ont dit quelques
philosophes? R. Non: il ne l'est pas plus que la douleur; le plaisir est
un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir.
D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables:
l'un, que le plaisir, s'il est pris au-delà du besoin, conduit à la
destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de
boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L'autre,
4128 que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par
exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la
douleur, et c'est afin de ne pas périr tout entier.
*
Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen
français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou
Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même
auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360.
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il
fine dell'esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio
dire, il fine naturale dell'uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale
dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è
nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo
è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita,
azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della
natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare
l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di
quell'ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto
alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi,
non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella
modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha
provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose
sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun
vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e
costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del
dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione
4129 la somma e intensità del suo piacere. Dunque la
natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità
degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia
di sua natura per necessario,
perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna
specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente
e innegabile nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione
spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai
spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta,
e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un'altra
contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e
per natura universale, infelici (essere - infelicità,
cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove pp. 4099-4100.
[4129,1] Del resto l'argomento di Volney vale
egualmente contro quello che egli dice essere le but immédiat et direct de la nature
*
(intenderà, credo, la natura dell'uomo), cioè la conservation de soi-même,
*
(negando
espressamente che le bonheur sia
le but immédiat et direct de la nature,
*
bensì un objet de luxe, surajouté à l'objet
nécessaire et fondamental de la
conservation
*
). Poichè, dato ancora, che è
falsissimo, che la propria conservazione sia l'oggetto immediato e necessario
della natura dell'animale, certo essa non lo è della natura universale, nè di
quella degli altri animali rispetto a ciascuno di loro (il che dee servire anche
per il detto
4130 di sopra). Anzi il fine della natura
universale è la vita dell'universo, la quale consiste ugualmente in produzione
conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni
animale entra nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di
esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più
{assai} quelle cose che cospirano alla distruzione
di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione; in
quanto naturalmente nella vita dell'animale occupa maggiore spazio la
declinazione e consumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell'uomo
anche prima dei trent'anni) che tutte le altre età insieme (v. ial. della natura e di un
Islandese, e Cantico del Gallo silvestre),
e ciò anche in esso animale medesimo indipendentemente dall'azione delle cose di
fuori; in quanto finalmente lo spazio della conservazione cioè durata di un
animale è un nulla rispetto all'eternità del suo non essere cioè della
conseguenza e quasi durata della sua distruzione. Similmente mille cose e mille
animali che non hanno in niun modo per fine la conservazione di un tale animale,
hanno bensì una tendenza assoluta a distruggerlo, o per la conservazione propria
o per altro. E ciò s'intenda di individui e di specie. E il numero di tali
individui o specie animali o no, tendenti naturalmente alla distruzione di una
qualsisia specie o individuo di animale (siccome di quelle tendenti al suo
dispiacere) è maggiore di quello tendente alla sua conservazione (siccome al suo
piacere).
[4130,1] Del resto che il fine naturale dell'animale non sia
la propria conservazione direttamente e immediatamente cioè per causa di se
medesima,
4131 si è dimostrato nel Dial. di un Fisico e un
Metafisico. L'uomo ama naturalmente e immediatamente solo
il suo bene, e il suo maggior bene, e fugge naturalmente e immediatamente solo
il suo male e il suo maggior male: cioè quello che per tale egli giudica. Se gli
uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni cosa, ciò
avviene solo perchè ed in quanto essi giudicano la vita essere il loro maggior
bene (o in se, o in quanto senza la vita niun bene si può godere), e la morte
essere il loro maggior male. Così l'amor della vita, lo studio della propria
conservazione, l'odio e la fuga della morte, {il timore di
essa e dei pericoli d'incontrarla,} non è nell'uomo l'effetto di una
tendenza immediata della natura, ma {di un raziocinio,}
di un giudizio formato da essi preliminarmente, sul quale si fondano questo
amore e questa fuga; e quindi l'una e l'altra non hanno altro principio naturale
e innato, se non l'amore del proprio bene il che viene a dire della propria
felicità, e quindi del piacere, principio dal quale derivano similmente tutti
gli altri affetti ed atti dell'uomo. (E quel che dico dell'uomo intendasi di
tutti i viventi). Questo principio non è un'idea, esso è una tendenza, esso è
innato. Quel giudizio è un'idea, per tanto non può essere innato. Bensì egli è
universale, e gli uomini {e gli animali} lo fanno
naturalmente, nel qual senso egli si può chiamar naturale. Ma ciò non prova che
egli sia nè innato nè vero. P. e. l'uomo crede e giudica naturalmente che il
sole vada da oriente a occidente, e che la terra non si muova: tutti i
fanciulli, tutti gli uomini che veggano da prima il fenomeno del
4132 giorno e che vi pongano mente, {(se non sono già preoccupati dalla istruzione)} concepiscono questa
idea, formano {{questo}} giudizio, {ciò immantinente,} ciò immancabilmente, ciò con loro piena certezza:
questo giudizio è {dunque} naturale e universale, e
pure non è nè innato (perocchè è posteriore alla esperienza dei sensi, e da essa
deriva), nè vero, perocchè in fatti la cosa è al contrario. Così di mille altri
errori e illusioni, mille falsi giudizi, {+in cose fisiche, e più in cose morali,} naturali,
universali, immancabilmente concepiti da tutti, e ciò con piena certezza di
persuasione, e la cui naturalità e universalità non per tanto non prova per
niente la loro verità nè il loro essere innati. Conchiudo che l'amore e studio
della propria conservazione non è nell'uomo una qualità ec. immediata, ma
derivante dall'amore della propria felicità (che è veramente immediato), e
derivantene per mezzo di un'idea, di un giudizio (e questo falso), il quale
mancando o cangiandosi, l'uomo manca dell'amore della propria conservazione, lo
converte in odio della medesima, fugge la vita, segue la morte; il che egli non
fa nè può fare mai, nè pure un momento, verso la sua propria felicità, ossia
piacere, da un lato, e la sua propria infelicità dall'altro; nè anche quando
egli sia pazzo e furioso; nel quale stato bene egli talvolta {volontariamente} si uccide, ma non lascia mai di amare sopra ogni
cosa e proccurare altresì quello che egli giudica essere sua felicità, e sua
maggiore felicità. (5-6. Aprile. 1825.).