[281,2]
Il Buffon
Hist. nat. de l'homme, combatte
coloro i quali credono che la separazione dell'anima dal corpo debba essere
dolorosissima per se stessa. A' suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il
più concludente. Se volessimo considerar l'anima come materiale, già non si
tratterebbe più di separazione, e la morte non sarebbe altro che un'
282 estinzione della forza vitale, in qualunque cosa
consista, certo facilissima a spegnersi. Ma considerandola come spirituale, è
ella forse un membro del corpo, che s'abbia a staccare, e perciò con gran
dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la materia, qualunque sieno,
certo non sono materiali, e l'anima non si svelle come un membro, ma parte
naturalmente quando non può più rimanere, nello stesso modo che una fiamma si
estingue e parte da quel corpo dove non trova più alimento, nel che, per dire
un'immagine, noi non vediamo nè ci figuriamo neanche astrattamente nessuna
violenza e nessun dolore sia nel combustibile sia nella fiamma. La morte
nell'ipotesi della spiritualità dell'anima, {non} è una
cosa positiva ma negativa, non una forza che la stacchi dal corpo, ma un
impedimento che le vieta di più rimanervi, posto il quale impedimento, l'anima
parte da se, perchè manca il come abitare nel corpo, non perchè una forza
violenta ne la sradichi e rapisca. Giacchè se l'anima è spirito, non bisogna
considerarla come parte del corpo, ma come ospite di esso corpo, e tale che
l'entrata e l'uscita sua sia facilissima leggerissima e dolcissima, non
essendoci mica nervi nè membrane nè ec. che ve la tengano attaccata, o
283 catene che ve la tirino quando deve entrarvi. E
quando v'entra, la cosa è insensibile, e l'uomo certamente non se ne avvede;
così la sua uscita dev'essere insensibile, e tutta diversa dalla nostra maniera
di concepire. Come l'uomo non s'accorge nè sente il principio della sua
esistenza, così non sente nè s'accorge del fine, nè v'è istante determinato per
la prima conoscenza {e sentimento} di quello nè di
questo. V. p.
290.
[660,1]
Diogene
ἐρωτηϑεὶς εἰ κακὸς ὁ
ϑάνατος, πῶς, εἶπε, κακός, οὗ παρόντος οὐκ αἰσϑανόμεϑα
*
; Laerz. in Diog. Cyn. 6. 68. Dalla nota del Menag. si rileva ch'egli l'ha inteso
della insensibilità dell'atto della morte.
[2182,1] È cosa osservata che non solo le stesse morti
provenienti da mali dolorosissimi, sogliono esser precedute da una diminuzione
di dolore, anzi quasi totale insensibilità, ma che questi sono segni certi, e
quasi immancabili (io credo certo immancabili) di morte vicina. Laonde tanto è
lungi che la morte sia un punto di straordinaria pena o dolore o incomodo
qualunque corporale, che anzi gli stessi travagli corporali che la cagionano,
per veementi che sieno (e quanto più sono veementi) cessano affatto
all'avvicinarsi di lei; e il momento della morte, e quelli che immediatamente la
precedono
2183 sono assolutamente momenti di riposo e
di ristoro, tanto più pieno e profondo quanto maggiori sono le pene che
conducono a quel passo. Ciò che dico del travaglio corporale, si deve pur
necessariamente estendere allo spirituale, perchè quando l'insensibilità del
paziente è giunta a segno che lo rende insuscettibile di qualunque dolore
corporale, per grandi che sieno le cagioni che dovrebbero produrlo, il che
immancabilmente accade in punto di morte, è manifesto che l'anima essendo quasi
fuori de' sensi, è fuori di se stessa, fuori de' sensi spirituali, che non
operano se non per mezzi corporali, e quindi incapace di pene e di travagli di
pensiero. Ed infatti il punto della morte, è sempre preceduto dalla perdita
della parola, e da una totale insensibilità ed incapacità di attendere e di
concepire, come si argomenta dai segni esterni, e come accade a chi sviene, o a
chi dorme. ec. E questo letargo precursore
2184
immancabilissimo della morte, è forse, almeno in molti casi, più lungo nelle
malattie violente ed acute, che nelle lente, compassionando così la natura alle
pene de' mortali, e togliendo loro maturamente la forza di sentire, quando ella
non sarebbe più se non forza di patire. (28. Nov. 1821.).
[2566,1]
2566 È egli possibile che nella morte v'abbia niente di vivo?
anzi ch'ella sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere che
la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo?
Quando tutti i sentimenti vitali, e {soli} capaci del
dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno o
nell'asfissia ec. (ne' quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec. o
non danno dolore, o ne danno meno dell'ordinario, in proporzione
dell'intorpidimento, della gravezza p. e. del sonno, ch'è minore o maggiore,
com'è somma nell'ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il meno suscettibili e vivi
che si possa mai pensare, essendo quello il punto in cui si spengono per sempre,
e lasciano d'esser sentimenti. Il punto in cui la capacità di sentir dolore
s'estingue interamente, ha da esser un punto di sommo dolore? Anzi non può esser
nemmeno di dolore comunque, non potendosi concepir
2567
l'idea del dolore, se non come di una cosa viva, e il vivo è inseparabile dal
dal dolore, essendo questo un irritamento, un aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa di cui non sono capaci nel punto in
cui in vece di risentirsi, si dissentono per sempre. Così non si dee
creder nemmeno che quel piacer fisico ch'io affermo esser nella morte, sia un
piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a differenza del dolore, opera
languidamente sui sensi, anzi osservate che il piacer fisico per lo più consiste
in qualche specie di languore, e il languor de' sensi è un piacere esso stesso.
Però i sentimenti ne son capaci anche estinguendosi, e perciò medesimo che si
estinguono. (16. Luglio. 1822.).