30. Nov. 1828. Recanati.
[4418,2] È cosa notata che il gran dolore (come ogni grande
passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure interno.
Vale a dire che l'uomo nel grande dolore non è capace di circoscrivere, di
determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento relativo al suggetto
della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa esprimere a se
medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così, il {pensiero nè} dolor suo. Egli sente mille sentimenti,
vede
4419 mille idee confuse insieme, o piuttosto non
sente, non vede, che un sentimento, un'idea vastissima, dove la sua facoltà di
sentire e di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè
dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste. Quindi egli allora non ha
propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una
specie di letargo; se piange (e l'ho osservato in me stesso), piange come a
caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che. Quei drammatici, e simili, che in circostanze di
grandi passioni introducono de' soliloqui, fondandosi sulla convenzione che
permette a' suoi personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se
medesimi se fossero reali, sappiano che in tali circostanze l'uomo tra se non
dice nulla, non parla punto {neppur} seco stesso. E fra
tali drammatici ve n'ha de' sommi (Shakespeare medesimo), se non son {tali}
tutti. (30. Nov. 1828. Recanati.).