11. Giugno. 1823.
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2761,1]
2761 Ma chiunque bene osservi vedrà che siccome questa
scena riesce naturalissima e conveniente in Omero, così riesce forzatissima - e fuor di luogo in Virgilio; e ripugna all'idea che il
lettore si era formato sì del carattere di Enea, sì della virtù eroica generalmente, dietro alle tracce di quel
poema: anzi, dirò anche, ripugna all'idea che se n'era formata lo stesso Virgilio. E tutto quel luogo del suo
decimo libro, dov'Enea fa lo spietato e
il terribile, si riconosce a prima giunta per tirato d'altronde, (cioè
dall'imitazione d'Omero, e dal carattere
eroico-omerico) alieno dall'indole del poema e dell'eroe, alieno dal concetto
medesimo di Virgilio: tanto che quella
che si chiama inumanità, sembra in quel luogo come affettata da Enea, ed ascitizia, {e quasi finta} e par ch'egli ci sia inesperto e non la sappia
esercitare; laddove negli eroi di Omero
2762 ella par vera e propria e che venga loro {da} natura.
[2762,1] La ragione si è che Omero e tutti quei del suo tempo concepivano
l'inumanità verso i nemici come appartenente alla virtù eroica, come parte, come
debito della medesima, e tanto è lungi che la tenessero per colpa o eccesso, che
anzi la stimavano una dote e un attributo degno e proprio dell'eroe: ed
intendevano di lodar quello a cui l'attribuivano; e l'attribuivano ed
esageravano, volendo lodare, eziandio a chi non l'avesse o non l'avesse in quel
tal grado; come fanno i panegiristi circa ogni sorta di virtù. Laddove Virgilio la concepiva, secondo le idee
incivilite del suo tempo, come un vizio, e un biasimo; e concepiva come virtù e
pregio la benignità ed umanità verso i nemici, il che sarebbe stato ridicolo o
assurdo ai tempi d'Omero, come lo
sarebbe ora presso i
2763 selvaggi, e questa umanità
pose come parte essenziale e notabilissima della virtù eroica, ed espressela nel
suo Enea, anzi gliel'attribuì come
qualità caratteristica e principale della sua indole. E quei tratti d'inumanità
non li tolse ne[nè] li ritrasse dalla forma
dell'eroismo ch'egli avea nella sua mente, nè da quella del carattere di Enea ch'egli si era composta; ma dal
poema che s'aveva e s'era sempre avuto per modello dei poemi eroici, e in cui si
stimava universalmente, essere rappresentata la vera idea del carattere eroico.
E ne li tolse quasi contro sua voglia; o più veramente non s'accorse che questa
idea a' suoi tempi, in questa parte, era mutata; e non era, in questo, l'idea
sua nè quella de' suoi contemporanei; e ch'essa era, in ciò, ben diversa dal
concetto ch'egli s'era formato e ch'aveva espresso, del suo Enea. Laonde non vide che quei tratti, benchè propri
della
2764 virtù eroica appresso Omero, ed appartenenti al carattere di quegli eroi, non
avevano che fare col suo poema. Ma esso gli appropriò ad Enea pensandosi d'aver espresso fino allora {e di} esprimere nel suo poema un eroe come quelli di
Omero, e un carattere eroico come
l'eroismo espresso da Omero; nel che
s'ingannava; e pensandosi che l'eroismo per li suoi tempi fosse quella cosa
medesima ch'era stato per li tempi d'Omero, nel che pur s'ingannava. Siccome anche s'ingannava pensandosi
d'aver fatto un eroe che fosse potuto essere a quei tempi ne' quali egli lo
supponeva; o ch'essendo, fosse potuto essere stimato eroe da' suoi
contemporanei. Perchè infatti Virgilio
nel formare il carattere di Enea, non
salvò la verisimiglianza, rispetto ai tempi in cui fu questo eroe, e peccò di
anacronismo in questo carattere molto peggio che nell'episodio di Didone;
2765
siccome peccò di gravissimo anacronismo lo Chateaubriand nei Martiri, supponendo le opinioni
religiose, la religiosità e le superstizioni de' tempi di Omero, ne' tempi di Luciano.
[2765,1] L'inumanità verso i nemici non era biasimo ai tempi
di Omero, perchè i nemici non erano
considerati come uomini, o come parte di quel corpo a cui apparteneva il loro
avversario. Gli antichi (e i selvaggi altresì) erano ben lontani dal considerare
tutto il genere umano come una famiglia, e molto più dal considerare i nemici
come loro simili e fratelli. Simili e fratelli non erano per gli antichi, {e non sono per li selvaggi,} se non gl'individui della
loro stessa società; o nazione o cittadinanza o esercito che la vogliamo
chiamare e considerare. Di questo ho detto altrove pp. 875. sgg.
pp. 877. sgg.
pp. 1710-11
pp. 2252-55
pp. 2305-306. Quindi essere inumano verso i nemici, tanto era per gli
antichi, quanto essere inumano verso i
lupi o altri animali che non
2766 sono del genere umano, anzi gli nocciono. Siccome
appunto i nemici nocevano o cercavano di nuocere a quella società, dentro i
limiti della quale si conteneva tutta quella famiglia umana a cui gli antichi si
stimavano appartenere. E come a chi prendesse a difendere o a vendicare la sua
società contro gli animali nocivi, sarebbe lode il non perdonar loro in alcuna
maniera, ma sterminarli tutti a poter suo; così agli antichi era lode
l'inumanità verso i nemici, che non si reputavano aver diritto all'umanità, non
istimandosi aver nulla di umano, cioè nulla di comune con quegli uomini che li combattevano; e l'eccesso
o il sommo grado di questa inumanità si giudicava proprissima dell'eroe.
Massimamente che tutte le passioni o azioni forti erano fra gli antichi stimate
molto più degne, o certo più eroiche che le deboli; e quindi la spietatezza
verso chi non aveva alcun titolo alla clemenza, {quali}
si stimavano
2767 i nemici, era creduta molto più
eroica che la compassione, affetto dolce, molle, e stimato femminile; la
vendetta molto più eroica che il perdono, siccome il risentimento era giudicato
ben più degno dell'uomo che la pazienza delle ingiurie, la quale non andava mai
disgiunta dalla riputazione e dal biasimo di viltà o dapocaggine.
[2767,1] Quando Omero, introduce Priamo ai
piedi d'Achille, quando ci commuove
fino all'anima coll'amaro spettacolo di tanta grandezza ridotta a tanta miseria,
quando par che impieghi ogni artifizio, che accumuli ogni circostanza, propria a
destarci la compassione più viva; e nel tempo stesso ci rappresenta Achille, il protagonista del suo poema,
il modello della virtù eroica da lui concepita, così difficile, così tardo a
lasciarsi piegare, piangente sopra il capo di Priamo, non già le sventure di Priamo, ma le sue proprie e il suo vecchio padre, e
il suo Patroclo, della cui morte esso
2768
Priamo era venuto a chiedergli in
certo modo il perdono, quando finalmente non lo fa risolvere di concedere al
supplichevole e infelicissimo re la sua misera domanda, se non in vista
dell'ordine espresso già ricevutone da Giove per mezzo di Teti,
senza il quale egli dimostra e fa intendere assai chiaramente che nè le
preghiere nè il pianto nè il dolore nè {{tutto}} il
misero apparato di quel re domo e prostratogli dinanzi, l'avrebbero vinto; a noi
pare che questo Achille sia quasi un
mostro, e che anche una virtù secondaria anzi minima, non che primaria, (come si
rappresenta la sua in quel poema) anche molto più gravemente offesa, anche già
meno acerbamente vendicata, anche con minori cagioni d'intenerirsi, avesse
dovuto e commuoversi ben tosto, e sommamente, e concedere già molto prima di
quel ch'ella fa, la domanda del supplichevole, e concedere anche assai di più,
potendo
2769 farlo, e farlo di volontà sua. Ma Omero stimò di doverci rappresentare in
quel punto Achille come egli
rappresentollo. E non si creda ch'egli nel far questo abbia solamente in mira di
conservare la simiglianza del carattere {feroce} di
Achille, da lui fino a
loro[allora] espresso, e di non farne un
personaggio diverso da quel che l'aveva fatto essere. Omero attende a salvare il suo eroe dal biasimo della
compassione, cioè della mollezza, e della facilità di lasciarsi commuovere, e
della tenerezza di cuore {#1. come noi
attenderemmo (e come infatti i più moderni epici ec. attesero ec.) a
salvarlo dal biasimo della durezza della insensibilità, della crudeltà verso
il nemico, e a proccurargli appunto la lode della compassione verso il
nemico, come cosa magnanima ec.}; Omero non ha solamente riguardo all'Achille tal quale egli l'ha fatto, ma alla virtù
eroica tal quale allora si concepiva; egli introduce quell'episodio
compassionevole in grazia del sommo interesse e del gran contrasto di affetti a
cui dà luogo, ma guarda che Achille non
offenda in alcuna parte le leggi dell'eroismo; non si mostri leggero,
flessibile, dappoco perdonando; non sia ripreso d'essere stato umano co'
2770 nemici della sua nazione e suoi.
[2770,1] Tali erano i tempi di Omero, e molto più quelli ch'egli dipinge: e tali
bisogna considerarli volendo ben conoscere ed estimare la somma arte imitativa
di quel grande spirito, anche nelle situazioni più difficili. Siccome appunto
era questa, assai più difficile per lui, stante le predette considerazioni, che
non sarebbe per noi. Nella quale quanto più a noi può parere ch'egli abbia
peccato, quanto più egli si allontana dalla nostra opinione, e delude ed étonne la nostra aspettativa, tanto la sua arte è
maggiore, la sua imitazione più vera, la sua osservazione e conservazione de'
caratteri, de' tempi, de' personaggi più costante, e più mirabile la sua
riuscita, e la felicità con cui egli si trae fuori delle difficoltà somme di
questo passo. {{E tanto eziandio erano e si denno valutar
maggiori esse difficoltà. (11. Giugno. 1823.).}}