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21. Ott. 1828. Firenze.

[4414,4]  Il vedere che Omero (per usare, come dice Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere, ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti. Noi, quantunque i nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica, cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare. Ma nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione  4415 per usarla {e per non parlar mai di scrittura,} se non, che le poesie in fatti si cantavano senza scriverle. Ho dimostrato altrove p. 4214 che dovunque esiste una lingua poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica. Ma i tempi d'Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i francesi), perchè non avevano antichità di lingua. E in fatti non avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que' tempi, nomina le città, i popoli, i magistrati ec. co' loro nomi propri e prosaici. Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec. ec.), costumi de' suoi tempi, dignità ec., {nomi} che ora o sono sbanditi dalla lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante. {+V. p. 4426.} Se dunque l'uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero avrebbe detto francamente di scriverle. Il veder che nol dice mai, nemmen per perifrasi o metafora (come fa l'autore della Batracomiomachia {subito nel bel} principio, {nell'invocazione;} il quale dice il Wolf come cosa provata, essere stato verisimilmente circa i tempi d'Eschilo), {+V. p. 4483.} è prova quasi parlante che non le scriveva. (21. Ott. 1828. Firenze.).