22-29. Gen. 1821.
[543,1] La superiorità della natura su la ragione e l'arte,
l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità
della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le
qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio,
profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve
con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma
da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
{essenzialmente} i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
544 nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui
non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità {(e non
poche nè leggere)} dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti
del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la
perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in
un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa
umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se
stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini
nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da
se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze
naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è
imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla
natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[545,1]
545 Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia
giustamente e con verità, ossia che l'uomo odia naturalmente la servitù, e
soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è
il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e
de' passati, dall'estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per
qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario al
buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di tutti i
governi. Tale sarà oggidì; non mica in principio: anzi in principio, lo giudico
e credo il più perfetto, e posso dire il solo perfetto, e ragionevole e
naturale. Cioè, posto che v'abbia ad essere un governo, io dico che questo,
nello stato primitivo della società, non doveva nè poteva esser altro che il
monarchico assoluto; e non volendo questo, non c'era ragione di volere un
governo.
[545,2] L'uomo per natura è libero, e uguale a qualunque altro
della sua specie. Ma nello
546 stato di società, non è
così. La ragione, il principio, lo scopo della società, non è altro che il ben
comune {di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo
più o meno esteso.} Senza questo fine, la società manca della sua
ragione. E siccome ella è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma
è ancora non pure inutile ma dannosa all'uomo, se sussiste senza conseguirlo;
perciò se il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè
questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all'uomo più
nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
[546,1] Ora il ben commune di un corpo o società, non si può
ottenere, se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine.
Così accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte
cagioni, e da molte forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può
realizzarsi senza l'accordo e cospirazione congiunta e convenevole di tutte
queste forze, verso il detto effetto. Ecco il principio d'unità: principio che
risulta necessariamente dallo scopo della società, ch'è il ben comune. E perciò,
come nel ben
547 comune, e non in altro, consiste la
ragione della società; così questa rinchiude essenzialmente il principio di
unità. A segno che società,
considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire unione di molti: la quale unione è imperfetta, se
non è perfettamente una, in quello che concerne la sua ragione e il suo scopo:
giacchè nel rimanente, dove la società non ha bisogno di unità, l'uomo sebbene
associato, è come fuori della società, e conserva le sue qualità naturali, vale
a dire la sua libertà, la cura di se stesso, e de' suoi negozi ec. In somma
nelle altre parti indipendenti dal ben comune, la società non sussiste, e non è
società, sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua
ragione e destinazione e scopo.
[547,1] Ma le volontà degl'individui riuniti in corpo,
gl'interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra
qualunque altra cosa, sono infinite, e diversissime. Quindi le forze di
ciascuno, non possono cospirare ad un solo fine, tra perchè non tutti si curano
di proccurarlo; e perchè le opinioni, le volontà ec. quando
548 anche si accordino nel cercarlo assolutamente, non si accordano
relativamente nel determinarlo, sia in genere e totalmente; sia in parte, e in
particolare; sia riguardo ai tempi, alle opportunità di cercarlo e proccurarlo
ec. E l'uno {crede o vuole} che questo sia o debba
essere il fine; l'altro che sia o debba esser quello: l'uno che questo giovi al
fine convenuto e stabilito; l'altro che noccia o non giovi: l'uno che bisogni
cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l'altro che bisogni aspettare
fino a domani, o cercarlo in quest'altro modo. E così, chi non si cura del ben
comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e dannoso alla società.
Chi se ne cura, non cospira, nè può cospirar cogli altri, sia positivamente, sia
negativamente, cioè col fare, o coll'astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i
fini ec. Dunque neppur egli corrisponde al fine della società, il quale non può
risultare se non dall'accordo dei membri verso il ben comune: altrimenti
ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la società era inutile.
[549,1]
549 In un corpo dunque perfettamente libero e uguale,
manca affatto l'unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi
solo costituente della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste
se non il nome e la sembianza della società; {vale a dire che
più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.}
[549,2] Come dunque lo scopo della società è il ben comune;
{e} il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione
degl'individui al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo stato vero, la
perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona
perfettamente questa cospirazione e unità. Giacchè la perfezione di qualunque
cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
[549,3] Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni,
gl'interessi, le volontà di molti? Non c'è altro mezzo che subordinarle, e farle
dipendere e regolare da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle
opinioni, volontà, interessi di un solo. L'unità è ottenuta; ma perch'ella sia
vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente
550 diriggere e regolare e determinare le opinioni
interessi volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di
ciascuno: in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello che concerne lo
scopo di detta società, cioè il di lei bene comune. Ecco dunque la monarchia
assoluta e dispotica. Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma
inerente all'essenza, alla ragione della società umana, cioè composta
d'individui per se stessi discordanti.
[550,1] Colla monarchia assoluta e dispotica, l'unità è, come
dissi, ottenuta. Questo è il mezzo per conseguire il bene comune. Ma esso bene,
cioè il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà
di quel solo corrisponderanno {e tenderanno}
effettivamente al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa
cogl'interessi comuni.
[550,2] Ecco la necessità di un principe quasi perfetto:
irreprensibile nei giudizi e opinioni
551
{prudenza ec.} per discernere e determinare il vero
bene universale {e i veri mezzi di ottenerlo;}
irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza, nelle
inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine), per
diriggere effettivamente le sue forze e quelle de' sudditi a quel fine, nel
quale egli giudica riposto il comun bene.
[551,1] Se il principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli
è divenuto l'anima e la testa, e in somma la forza movente della società, {anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società
sia tutta riposta e rinchiusa in lui;} così quanto egli non mira al
ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di
nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e
dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla
servitù, dall'esser tutti destinati al bene di un solo, dall'impiegare le loro
forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li
capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso
vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il
loro bene, ma il loro
552 male. In somma tutte le
calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d'ogni specie, e quindi
certa sorgente d'infelicità. Così la società diviene un male infinito, diviene
formalmente l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o
minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se
stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal {di} lei fine, ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio
fine.
[552,1] Se dunque la società non può stare {, anzi non esiste} senza unità; e la perfetta unità non può stare
senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde al fine di essa
unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo
monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto.
Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè
fra le cose. Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto. Ma parlando
di quella perfezione che è nell'uso e nella vita comune (Cic.
de Amicit. c. 5.); un principe
553 perfetto in questo senso si poteva trovare nei
principii della società. 1. Perchè la virtù, le illusioni che la producono e
conservano, esistevano allora: oggi non più. 2. Perchè la scelta può cadere
sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per
buona e retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della società,
ossia 1o. di conoscere, 2o. di proccurare il ben comune di quel corpo che lo
sceglieva.
[553,1] Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero
al principato quell'uomo che eminebat per doti
dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto
uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo, al fine
della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della
società.
[553,2] Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire
pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e
proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non
554 appartiene al mio proposito. Questo discorso non considera nè deve
considerare altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto
andare, e avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono
andate, o vanno. Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle
antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle
antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e
realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene
delle rispettive società. Così nei popoli Americani, così nei selvaggi (dove la
tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca la monarchia, o militare, o
civile), così negli antichi Germani, de' quali Tacito ed altri; così fra i Celti,
de' quali Ossian; così fra i greci
Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia
posteriore al primitivo. Insomma considerando le storie de' primi tempi, si può
vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è però antichissima:
555 bensì antichissima e primordiale nella società è
l'idea della monarchia assoluta. {V. Goguet, Origine delle
scienze e delle arti.} Assoluta s'intende, non mica in
modo che questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per
costituente la natura di quel tale governo. Ma senza tante definizioni, e
sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano
col fatto al reggimento di un solo
assolutamente; senza però neppur pensare ch'egli dovesse esser padrone della
vita, {dell'opera,} e delle sostanze loro a capriccio,
ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le
circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e
rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di
stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o
materiali) distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, {matematiche} ec. perchè si tolga alla malizia ogni
sutterfugio, ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e
indeterminato. E già vengo a questa corruzione.
[556,1]
556 Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si
poteva trovare un principe e capace e buono. Essendo la società nello stato
primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza
impegni, senz'altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il detto
uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
[556,2] Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il
nostro discorso comprende tanto l'antica, quanto la moderna depravazione, perchè
anche l'antica bastava all'effetto che dirò), non fu più possibile trovare un
principe perfetto. Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch'egli
divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli
uomini; sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni
cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno utile di
certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina indole. In
somma non fu più possibile che l'uomo anche più perfetto, avuto in mano il
potere, non se ne abusasse. Quando anche
557 fosse stato
possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e
cresciuta, l'ambizione ec. e quindi la necessità di regole fisse, strette, e
indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore.
Bisognò dunque, perch'ella fosse certa
e invariabile commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario.
E dove questo non fu stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali
nelle turbolenze della scelta, perchè la società ridotta com'era, non poteva più
scegliere {nè} senza turbolenza, nè un principe
degno.
[557,1] Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene
scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati. Perchè un uomo
veramente perfetto per quell'incarico, essendo raro da principio, rarissimo in
seguito, com'era possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare
quest'uomo rarissimo, capace del principato? Com'era possibile che
558 l'azzardo della nascita, o di una scelta parimente,
si può dir casuale, perchè diretta da tutt'altro che dal vero, si combinasse a
cadere appunto in quest'uomo sommo e quasi unico, difficilissimo a trovare anche
mediante la più matura considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della
società, esiggeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili
qualità che per l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario di
prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era più
sufficientemente perfetto per allora.
[558,1] La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla
monarchia, non fu più nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò
più nell'ordine della società. E siccome, oltre che la perfezione era rarissima,
il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli
poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl'individui: e
ciò non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il
potere, l'adulazione ec. contribuivano
559
positivamente, definitamente, e necessariamente a farlo tale.
[559,1] Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto,
la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo
scopo, cioè al ben comune. L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi l'unità
in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo
impossibile. Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè
il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di più che
risultava dall'assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo, dell'esser tutti nelle
mani di un solo, inteso a danneggiarli.
[559,2] In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la
società, o diminuire, laxare quell'unità, ch'essendo
da principio e in natura il massimo e più necessario de' beni sociali, così dopo
la corruzione, è il sommo de' mali, e l'istrumento e sorgente delle più
terribili infelicità.
[560,1]
560 Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo
il loro primo, vero, e naturale governo, inerente alla vera natura della
società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche ec. divisero i poteri,
divisero in certo modo l'unità; ripigliando quella parte di libertà e di
uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più
oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e
ragione della società. Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che
doveva disporre di quest'altra porzione di libertà ec. non esistendo più pel
comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
[560,2] Così le repubbliche {d'ogni
qualsivoglia sorta,} e in ragione e in fatto sono posteriori alla
monarchia assoluta, e l'idea e l'esistenza della tirannia non è antichissima, ma
nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede immediatamente l'idea e
l'esistenza degli stati liberi. Giacchè l'antichissima e primitiva forma e idea
di governo, non è altra che quella dell'assoluta monarchia. Osservate la storia
greca, osservate la romana. {+V. Goguet loc. cit.} Dovunque e
sempre la monarchia
561 precede la libertà, e la libertà
nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà anche più corrotta
successivamente, e più cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento,
nasce una nuova monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè
tutte due derivate da cattivo principio. Eccetto che la libertà ed uguaglianza
naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell'uomo insociale e
solitario, o in quella prima infanzia della società, dov'ella è piuttosto
un'adunanza materiale d'uomini che una società.
[561,1] Riprendendo il filo del discorso: coll'influenza, la
forza, la viridità, l'osservanza della natura, era finita la perfezione e
l'utilità dell'assoluta monarchia: coll'assoluta monarchia era finito lo stato
vero ed essenziale della società. Lungi dunque dalla natura, e lungi
dall'essenza di se stessa, la società non poteva esser più felice. Nè vi poteva
più esser governo perfetto, non solo perchè l'uomo era allontanato dalla natura,
fuor della
562 quale non v'è perfezione {in qualunque stato;} ma anche e principalmente perchè
quel solo governo che potesse da principio esser perfetto, perchè il solo
conveniente all'essenza della società, era da circostanze irrimediabili e
perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso questo o quel
popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
[562,1] La natura, sola fonte {possibile} di felicità anche all'uomo sociale, è sparita. Ecco
l'arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per
supplire all'assenza o corruzione della natura, rimediarci, sostituire i loro
(pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo
da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l'uomo cioè a
quella felicità, a cui la natura lo conduceva. Quante forme di governo non sono
state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante
utopie ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano ne' principii, giacchè
pretendevano d'immaginare un governo perfetto, e
563
(lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità
nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del
governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non
ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e
conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che
semplicissima.
[563,1] Fra tante miserie di governi che quasi facevano a
gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare
l'infelicità degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e
democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser
suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di
forza d'animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti. L'uomo non
era più tanto naturale, da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza
corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza
limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che ne
564 abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo.
Perchè se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze,
in somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare
tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il
pubblico a se stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in somma
non era capace di non tendere alla πλεονεξία in ogni cosa. L'ubbidienza e
sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non è insomma altro
che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi per gli altri,
un contribuire pro virili parte al pubblico bene. Dico
quando la detta sommissione è spontanea. Ma l'egoismo non è capace di sacrifizi.
Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare; la comunione
degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse pubblico era impossibile. Nato
dunque l'egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non era servo, nè il
principe comandare senza esser tiranno. (V. p. 523. capoverso ult.) {+Le
cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello non
andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed
era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione
della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle
forze.}
[565,1]
565 Ma restava ancora nel mondo tanta natura, tanta
forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere lo stato democratico,
e conseguirne una certa felicità e perfezione di governo. Uno stato
favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec. uno stato che esigge
grand'azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica degl'individui è
sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come
ho detto altrove [p. 121], per lo più necessariamente giusto; uno stato
dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato
dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi
non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi
fatti al popolo, il quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno
stato dove, se non altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può
quasi mancare al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel
fantasma immenso, quella molla onnipotente nella società; uno stato, del
566 quale ciascuno sente di far parte, e al quale però
ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso;
uno stato dove non c'è molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco
uguali, i vantaggi sono distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di
merito e di gloria, cose poco soggette all'invidia, e perchè la strada per
ottenerle è aperta a ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e
volontà di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in
somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il
primitivo dell'uomo, naturalmente libero, e padrone di se stesso, e uguale agli
altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente
di perfezione e felicità: un simile stato finchè restava tanta natura da
sostenerlo, e quanta bastava perch'egli fosse ancora compatibile colla società;
era certamente dopo la monarchia primitiva, il più conveniente all'uomo, il più
fruttuoso alla vita, il più felice.
567 Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche
greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
[567,1] Ma come l'uguaglianza è incompatibile con uno stato il
cui principio è l'unità, dal quale vengono necessariamente le gerarchie; così la
disuguaglianza è incompatibile con quello stato, il cui principio è l'opposto
dell'unità, cioè il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e
democrazia. La perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà. Vale a
dire, è necessario che fra quelli fra' quali il potere è diviso, non vi sia
squilibrio di potere; e nessuno ne abbia più nè meno di un altro. Perchè in
questo e non in altro è riposta l'idea, l'essenza e il fondamento della libertà.
Ed oltre che senza questo, la libertà non è più vera, nè intera; non può neanche
durare in questa imperfezione. Perchè, come l'unità del potere porta il monarca
ad abusarsene, e passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il
maggiore ad abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le
568 democrazie vengono a ricadere nella monarchia. Nè solamente la
πλεονεξία del potere, ma ogni sorta di πλεονεξία, è incompatibile e mortifera
alla libertà. Nella libertà non bisogna che l'uno abbia sopra l'altro nessun
avvantaggio se non di merito o di stima, in somma di cose che non possano essere
nè invidiate per parte degli altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi
le possiede. Altrimenti nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior
superiorità negli altri. Questi cercano d'innalzarsi, quelli di non restare al
di sotto, o di conseguire gli stessi vantaggi. Quindi fazioni, discordie,
partiti, clientele, risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un
solo, e monarchia. Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani, come Fabrizio, Catone ec. proibivano le ricchezze, gastigavano chi
possedeva troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano il sapere, le scienze, le
arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta di πλεονεξία. Perciò tutte le
repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti
569 finchè ha durato il loro ben essere. Perciò gli Ateniesi
arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della virtù segnalata,
della mera gloria, ancorchè spoglia di onori esterni; ed è osservabile che la
superiorità del merito anche fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la
democrazia era più perfetta, cioè ne' primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec. Colle ricchezze, il lusso, le aderenze,
la coltura degl'ingegni, la {troppa} disuguaglianza
delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec. ed anche la sola eccessiva
sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte
le democrazie.
[569,1] Ma siccome è impossibile la durevole conservazione
della perfetta uguaglianza, e la perfetta uguaglianza è il fondamento
essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della democrazia, così
questo stato non può durar lungo tempo, e si risolve naturalmente nella
monarchia, se non è abbastanza fortunato per cader piuttosto nell'oligarchia, o
{nel} governo degli ottimati, cioè
nell'aristocrazia {{, le quali
570 però non sono
ordinariamente, anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla
monarchia. V. p. 608. capoverso
1.}}
[570,1] Il solo preservativo contro la troppa e nocevole
disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le
quali diriggono l'egoismo e l'amor proprio, appunto a non voler nulla più degli
altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell'uguaglianza, a difendere il
presente stato di cose, e rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto
quella dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù conducenti alla conservazione
della libertà ed uguaglianza di tutti. Il solo rimedio contro le disuguaglianze
che pur nascono, è la natura, cioè parimente le illusioni naturali, le quali
fanno e che queste disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito,
e che la virtù e l'eroismo comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di
buon occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del merito, e non si
sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per lo stesso mezzo della virtù
e del merito. E che quelli che hanno conseguita la detta superiorità, sia di
gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè quella di ricchezze, e altri tali
vantaggi, non ha luogo finchè dura nella
571 repubblica
l'influenza della natura), non se ne abusino, non cerchino di passar oltre,
sieno contenti, anzi impieghino il poter loro a mantener l'uguaglianza e
libertà, si comunichino agli altri, diminuiscano l'invidia de' loro vantaggi col
fuggire l'orgoglio, la cupidigia, il disprezzo o l'oppressione degli inferiori
ec. ec. ec. E tutto questo accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi
delle antiche democrazie, cioè ne' più vicini alla natura, e per gli effetti e
le opere e i costumi, e materialmente per l'età. Ma spente le illusioni, scemata
o tolta la natura, tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e
dai mezzi d'ingrandimento nei superiori, irritato negl'inferiori dalla stessa
inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso, le clientele, gl'impegni, le ambitiones, la filosofia, l'eloquenza, le arti, e le
altre infinite corruzioni e πλεονεξίαι della società, le democrazie
s'indebolirono, crollarono e finalmente caddero. E qui torniamo al principio del
nostro discorso,
572 cioè come i governi che paiono e si
trovano oggi imperfettissimi, e {talora} insostenibili,
fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i
costumi naturali. E come non vi sia peste, nè maggiore nè più certa a
qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l'estinzione della natura. E
come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la natura divengono
senz'altro pessimi. E come alla natura non si può supplire, e la mancanza di lei
non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può mai sperare perfezione o felicità di
governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia pure il governo il più
profondamente studiato, combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre
imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal adattato all'uomo (al quale
nulla si può più adattare, quand'egli non è più quello che dovrebb'essere),
inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o certo nella vera teorica,
precario, istabile, mal situato, mal piantato, barcollante, incongruente,
incoerente,
573 falso ec. Il che si potrà anche vedere
da quello che segue.
[573,1] Tutti i vari governi per li quali andò successivamente
o simultaneamente errando o lo spirito umano, o il caso, o la forza delle
circostanze particolari, non servirono ad altro che a disperare i veri filosofi
(certamente pochi), convinti dall'esperienza della necessaria imperfezione,
infelicità, contraddizione e sconvenienza di tutto quello che 1o. mancava di
natura sola norma vera e invariabile d'ogni istituzione mondana; 2o. non
corrispondeva all'essenza e alla ragione della società, la quale richiede la
monarchia assoluta.
[573,2] Quasi tutte però le diverse aberrazioni della società
in ordine ai governi, vennero a ricadere in questa monarchia, stato naturale
della società, e il mondo, massime in questi ultimi secoli, era divenuto, si può
dir, tutto monarchico assoluto. Specialmente poi dall'abuso e corruzione della
libertà e democrazia, nata immediatamente dall'abuso e corruzione della
574 monarchia assoluta, era nata {pure} immediatamente una nuova monarchia assoluta. Ma non già quella
primitiva, quella ch'era buona ed utile e conveniente alla società durante
l'influenza della natura, e mediante questa sola: ma quella che può essere
nell'assenza della natura; cioè quella tanto essenzialmente pessima, quanto la
primitiva è sostanzialmente e solamente ottima: insomma la tirannia, perchè la
monarchia assoluta senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno
grave, e quindi forse il pessimo di tutti i governi. {+E la ragione è, che tolte le
credenze e illusioni naturali, non c'è ragione, non è possibile nè umano,
che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa
essenzialmente contraria all'amor proprio, essenziale a tutti gli animali.
Sicchè gl'interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente
posposti a quelli di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi
degli altri, e delle cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche
capricci, insomma {per} qualunque soddisfazione
sua.}
[574,1] Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato
dal principio dell'impero romano, fino al
nostro secolo. Nell'ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle cose,
l'esperienza, lo studio, l'esame delle storie, degli uomini, i confronti, i
paralelli, il commercio scambievole d'ogni sorta d'uomini, di nazioni, di
costumi, le scienze d'ogni qualità, le arti ec. ec. hanno fatto progressi tali,
che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso,
e lo stato suo, e quindi principalmente
575 alla
politica ch'è la parte più interessante, più valevole, di maggiore e più
generale influenza nelle cose umane. Ecco finalmente che la filosofia, cioè la
ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile
potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di
supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e
ricondurre quella felicità ch'è sparita da secoli immemorabili insieme colla
natura. Giacchè insomma la felicità e non altro, è {o
dev'esser} lo scopo di questa nostra oramai perfetta ragione, in
qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le facoltà ed azioni
umane.
[575,1] Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente
tutta intiera al paragone della natura, intorno al punto principale della
società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del
passato, e nei primi anni di questo secolo. Riconosciuta per indispensabile la
monarchia, e d'altronde la monarchia
576 assoluta per
tutt'uno colla tirannia, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro
poteva?) al partito di puntellare. Non idee di perfetto governo, non ritrovati,
scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione. Modificazioni, aggiunte,
distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi
lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier di
qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e
rattoppature e chiavi, e ingegni d'ogni sorta, per mantenere un edifizio, che
perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può più reggere
senza artifizi che non entrano affatto nell'idea primaria della sua costruzione.
La monarchia assoluta s'è cangiata in molti paesi (ora mentre io scrivo
s'aspetta che lo stesso accada in tutta europa) in costitutiva. Non
nego che nello stato presente del mondo civile, questo non sia forse il miglior
partito. Ma insomma questa non è un'istituzione che abbia il suo fondamento e la
sua ragione nell'{idea e nell'}essenza o della società
in generale {e assolutamente,} o
577 del governo monarchico in particolare. È un'istituzione
arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi
necessariamente dev'essere istabile, mutabile, incerta e nella sua forma, e
nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero emergere perch'ella
corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità della nazione.
[577,1] 1o. Tutto quello che non ha il suo fondamento nella
natura della cosa, ha un'esistenza sostanzialmente precaria. La cosa può
restare, e la modificazione perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi,
diversificarsi in mille guise, non ottenere il suo scopo, restare quanto al nome
e all'apparenza, non quanto al fatto. Insomma le convengono tutte quelle
proprietà, che nelle scuole si attribuiscono all'accidente, e che lo definiscono. Di più, ancorchè resti,
e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente può
giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione
nell'essenza e natura della cosa.
[577,2] 2o. La ragione e l'essenza della monarchia consiste in
questo, che alla società è necessaria
578 l'unità.
L'unità non è vera se il capo o principe non è propriamente e interamente uno.
Questo non vuol dir altro se non che essere assoluto, cioè padrone egli solo di
tutto quello che concerne il suo fine, cioè il bene comune. Quanto più si divide
il potere, tanto più si pregiudica all'unità, dunque tanto più si viola, si
allontana {e si esclude} la ragione e la perfezione e
della monarchia e della società.
[578,1] Così che lo stato costituzionale non corrisponde alla
natura e ragione nè della società in genere, nè della monarchia in specie. Ed è
manifesto che la costituzione non è altro che una medicina a un corpo malato. La
qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza
lei. Dunque bisogna compensare l'imperfezione della malattia, con un'altra
imperfezione. E così appunto la costituzione non è altro che una necessaria
imperfezione del governo. Un male indispensabile per rimediare o impedire un
maggior male. Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec. Che sebbene
quell'individuo vive
579 mediante quel cauterio,
altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è
diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male, un vizio,
un'imperfezione: {e sebbene non nuoce più il primo male,
nuoce il rimedio:} e quell'individuo non è mica perfetto nè sano. Così
una gamba di legno a chi ha perduto la naturale. Il quale cammina bensì con
quella gamba, che altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non perciò resta
ch'egli non sia imperfetto.
[579,1] Ed ecco (per conclusione del mio discorso) come quei
governi e quelle cose {d'ogni genere,} che da principio
e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta la natura, non possono più
esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del sapere, dell'arte: e queste
non possono mai riempiere il luogo della natura, e fare perfettamente le di lei
veci: anzi rimediando a un male, ne introducono necessariamente un altro: perchè
esse stesse {introdotte che sono} in qualunque genere
di cose, ne formano un'imperfezione, e rendono {quella tal
cosa} imperfetta per ciò solo che le contiene. (22-29. Gen.
1821.)