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21-22. Agos. 1828.

[4343,1]  Dalle bellissime ed acutissime osservazioni del Wolf (Prolegom. ad Homer. §. 17. Halis Saxonum 1795, vol. 1. p. lxx-lxiii[lxxiii].) dalle quali risulta che, secondo ogni verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di prosatori appresso i greci, furono contemporanee all'epoca in cui la scrittura appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de' volumi; anzi che scripturam tentare et communi usui aptare {plane} idem videtur fuisse, atque prosam tentare et in ea excolenda se ponere * (p. lxxii.), il che accadde sul principio del 6. sec. av. G. C. (p. lxx.); da queste osservazioni, dico, si raccoglie la vera causa del fenomeno, in apparenza singolare, che presso tutte le nazioni, nel loro primo ingresso alla civiltà, la letteratura poetica ha preceduto la prosaica: fenomeno osservato da moltissimi, da nessuno, {nè prima nè dopo Wolf,} bene spiegato, e tuttavia naturalissimo, ovvio {e semplicissimo.} Chi potea mai pensare a comporre in prosa prima dell'uso (facile, comune, in carta o simili materie portabili, non in bronzo o marmo o legno) della scrittura? come conservare tali composizioni? Parlare in prosa, anche a lungo, si poteva, e parlavasi, raccontavasi in  4344 prosa, arringavasi, e simili, {ancora in pubblico; ma nè i parlatori nè gli altri pensavano a desiderare non che a proccurar durazione a tali prose, stantechè} nessuno neppur sospettava la possibilità che tali prose si conservassero, perchè la memoria non le potea ritenere. Da altra parte, gli uomini inclinati naturalmente alla poesia ed al canto, come apparisce dal vedere che quasi tutte le nazioni selvagge hanno delle poesie, poetavano e componevano in versi: da prima senza speranza nè disegno che questi si conservassero, non più che i discorsi in prosa; poi, visto che la memoria potea ritenerli, si pensò, si provvide alla loro conservazione: quando il conservarli e l'impararli fu divenuto cosa comune, quando vi furono degli uomini che ne fecero un mestiere (i rapsodi appo i greci), allora naturalmente anche la composizione de' versi divenne una specie d'arte; fu più accurata, più colta; infine v'ebbe una letteratura poetica; e ciò senza scrittura, e mentre che la prosa, non ancora coltivata in niun modo perchè non conservabile, era affatto lontana dal poter far parte di letteratura. Quindi è naturale che quando la scrittura fu divenuta comune e però si potè comporre in prosa, questa fosse infante, mancasse l'arte, mentre la poesia era già molto avanzata; {e la lingua poetica fosse già formata da'[da] più secoli mentre la prosaica era anco informe.} Vedi la p. 4238. capoverso 2. V'ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa{:} ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica. {{V. p. 4354.}}
[4344,1]  Tutto ciò accadde naturalmente e non già per disegno. Ridicolo è l'attribuire a popoli bambini nella civiltà, l'acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere, che la cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per questo fine. {{V. p. 4351. princip.}}
[4345,1]   4345 In quella letteratura antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero. Fuitque diu haec * (ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii * . (Wolf §. 23. p. xcviii.) Queste furono per più secoli le edizioni de' greci. Tanto che anche dopo reso comune l'uso della scrittura, etiam Xenophanem poemata sua ipsum ῥαψῳδῆσαι legamus * , osserva il Wolf (ib.) citando il Laerzio, IΧ. 18. male inteso da altri. E forse ancora di qui venne che Erodoto, un de' primi scrittori di prosa, anche la sua prosa (se è vero quel che si racconta; e forse questa osservazione potrebbe farlo più probabile) volle recitare in pubblico. {(v. p. 4375.)} Stante l'uso delle passate età, e l'assuefazione, non pareva pubblicato, edito, quello che non fosse comunicato veramente e di viva voce al popolo. Lascio che, per lungo tempo dopo il detto uso della scrittura, si continuò appresso i greci la recitazione pubblica o canto de' versi d'Omero e degli altri poeti antichi. Ac primo quidem tempore et paene ad Periclis usq. aetatem Graecia Homerum et ceteros ἀoιδoύς suos adhuc auditione magis quam lectione cognoscebat. Paucorum etiam tum erat cura scribendi, lectio operosa et difficilis; itaque rhapsodis maxime operam dabãt[dabant] captique mira dulcedine cantus ab illorum ore pendebant. In clarissimis huius saeculi * (secolo di Pericle) rhapsodis memoratur circa Olymp. 69. Cynaethus, Pindaro aequalis, qui Chio commigravit Syracusas, vel ibi maxime artem factitavit. * (Wolf §. 36. p. clx.) Noti sono i rapsodi del tempo di Socrate, di Platone, (ib. p. clxi. not. 22.) {e di Senofonte, §. 23. p. xcvi.} e l'autore  4346 dell'Ipparco, dialogo che va tra le opere di quest'ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da' rapsodi alle feste de' Panatenei quinquennali, i versi di Omero, con quell'ordine che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi da osservarsi nel recitarli. E durò fino agli ultimi tempi della Grecia l'uso di recitare a memoria ne' conviti e nelle conversazioni colte, degli squarci di poesia, or d'uno or d'altro autore; il che si chiamava ῥῆσιν εἰπεῖν e simili; {+V. p. 4438.} e vedine il Comento del Coray a' Caratteri di Teofr. e del Casaubono ad Ateneo. Possono considerarsi come una continuazione dell'antica usanza rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i sofisti e retori a' tempi romani, {e massime nel 2.o secolo,} andavano declamando pubblicamente per le città della grecia, dell'Asia, della Gallia, ora in lode di esse città, ora degl'impp.[imperatori], ora degli Dei {o eroi ec.} del paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec. {{V. p. 4351.}}
[4346,1]  Noi ridiamo di quell'antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. {Certo} non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era {dare ed} esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni. Come già Plato (Phaedr. p. 274. E) atque alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis, {sed} obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset, eadem non  4347 immerito noxa ejus et pernicies diceretur * (Wolf, §. 24. p. ci - cii.), così non sarebbe men paradosso e forse più vero il dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l'istruzione, è stata al contrario per una parte la causa di depopolarizzar la letteratura, la quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte. La scrittura sola ha reso possibile una letteratura più colta, polita e perfetta, la quale di sua natura non può essere, e non sarà mai, popolare. (Oggi {siamo a un punto, che} per farla tale, bisogna sperfezionarla, tornarla a una specie d'infanzia, a una rozzezza, {sacrificando il bello all'utile.}) {+V. p. 4367. Nè solo la prosa, {e le scritture dottrinali,} ma la poesia, che da prima, come si è veduto, ebbe per suoi propri uditori il popolo; {che costituì tutta la letteratura quando la letteratura fu popolare}; che anche oggi si grida, e per tutti i secoli antichi e moderni, si è gridato, dover esser popolare, esserlo già essa di sua natura; la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, e il più difficile ad esser tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova. {{V. p. 4352.}}}
[4347,1]  Componendo senza scrivere, non fidando i propri componimenti che alla memoria (ex eo Musarum, memorum dearum, diligens et in iliade enixe repetita invocatio * : Wolf. §. 20. p. lxxxix.), Omero e i poeti di que' tempi erano ben lungi dall'aspirare all'immortalità. Quid? quod ne nominis quidem immortalitas tum quenquam impellere potuit ut ei duraturis monumentis prospiceret; idque de Hom. credere, optare est, non fidem  4348 facere. Nam ubi is tali studio se teneri significat? ubi professionem eiusmodi, ceteris poëtis tam frequentem, edit, aut callide dissimulat? * (§. 22. p. xciv.) Non si era ancora concepita l'idea dell'immortalità, molto meno il desiderio. Ben desideravasi la gloria, cioè {l'onore e} la lode de' contemporanei, cioè de' conoscenti e de' cittadini o compatrioti, in vita e ne' primi dì dopo la morte: stimolo {ben} sufficiente alle più grandi azioni. Omnino {autem} satis habuit illa aetas, quasi sub nutrice ludendo et divini ingenii impetum sequendo, res pulcherrimas experiri et ad aliorum oblectationem prodere: mercedem si quam petiit, plausus fuit et laus aequalium auditorum * , dice il Wolf (§. 22. p. xciv - v. e cita Oraz. Ep. II. I. 93.). E quel ch'ei dice de' poeti di que' tempi dee dirsi parimente de' guerrieri, magistrati, uomini forti, giusti, virtuosi. {V. p. 4352.} Altro vantaggio anche questo de' tempi Omerici, ignorare l'immortalità del nome: 1.o non erano tormentati da un desiderio sì difficile ad adempire, 2.o molto più filosoficamente e ragionevolmente di noi (come sono sempre più filosofi di noi i primitivi) limitavano i lor desiderii a quel che è sensibile, e naturale a desiderarsi, la lode dei presenti; non estendevano le loro viste al di là di quel che è concesso all'individuo, al di là dello spazio assegnatogli dalla natura, cioè della vita; in fine non si curavano di quello che nulla ci può veramente nè giovare nè nuocere, nè piacere, nè dispiacere, di quel che {si penserà di noi} dopo la nostra morte.
[4348,1]  E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo, il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare all'immortalità, l'ha ottenuta; e noi {che la desideriamo, noi} per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio,  4349 non l'otterremo. I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe umana, {quanto la presente cronologia;} i nostri componimenti ed i nostri eroi, fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de' milioni di componimenti e di eroi da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura. Altro paradosso verissimo: la scrittura che sola {o principalmente} ha prodotto l'idea e 'l desiderio della immortalità, {la scrittura considerata come istrumento di essa immortalità,} la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati alla tradizione, {sola o principalmente,} ha reso a quest'ora impossibile il conseguirla. Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e quell'istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità. Il che non può più la scrittura. Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l'organo principalissimo e necessario. {{V. p. 4354.}}
[4349,1]  Quanto alle letterature moderne in cui la poesia precedè la prosa, come l'italiana e l'inglese, la ragione di ciò è d'un altro genere. E prima bisogna distinguere. Se si tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.), leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare ne' versi un'anteriorità. Se si tratta di classici, certo Dante p. e. precedette ogni nostro classico prosatore. La ragione è che le lingue moderne in principio  4350 furono credute inette alla letteratura. E ciò è naturale: prima ch'esse fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine. {+V. p. 4372.} Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella lingua colta, benchè diversa da quella ch'essi parlavano. Ma il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e trova ogni altra lingua incapace di renderli. Si dice che Dante per compor la {D.} Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi al volgare. Del Petrarca è noto. Ma essendo allora comune l'uso della scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta poesia. Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si videro che 400 anni dopo l'epoca omerica. Nè questa era stata forse la prima che producesse alla Grecia delle poesie culte. Anzi tutto persuade il contrario. Quum Homerica dictio longe longeque reducta sit ab eo sono, quem in infantia gentium horror troporum et imaginum inflat, atq; in verbis et locutionib. castigata admodum, aequabili verecundoque tenore suo quasi praenunciet pedestrem dictionem proxime secuturam, quam tamen amplius tria saecula a nemine tentatam reperimus * (il Wolf pone Om. 950 an. av. G. C. {+V. p. 4352. capoverso 2.)}; ita mea fert opinio, ut non cultum ingeniorum, sed alia quaedam maximeq. difficultatem scribendi arbitrer in mora fuisse, quo minus poëticam prosa eloquentia tam celeri, quam natura ferret gradu sequeretur * . (Wolf, §. 17. p. lxxii-ii.) (21-22. Agos. 1828.). {{V. p. 4352. princ.}}