5-11. Agosto. 1823.
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze.
{In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}

[3095,3]
Omero fu certamente anteriore alle
regole del poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavate. Considerandole
dunque come cavate e dedotte da' suoi poemi, e fondate sull'autorità di Omero, e principalmente
dell'iliade, dico che
3096 chi ne le
trasse, prese abbaglio, e che d'allora in poi fino al dì d'oggi, s'ingannarono e
s'ingannano tutti quelli che le seguirono o le sostennero, o le seguono o
sostengono (ciò sono tutti i litteratores) come
appoggiate sull'esempio di Omero: perchè
quest'esempio non sussiste, e dalla {forma della}
iliade non nascevano e non si potevano cavar quelle regole.
Considerandole poi come indipendenti da Omero, come sussistenti da se, e supponendo (il che non è vero)
ch'elle sieno il parto della ragione e della specolazione assoluta, dico senza
tergiversazione che Omero, siccome non
le conobbe, così neanche le seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra
delle Poetiche e de' Dottori di Scuola e delle teorie, s'allontanò
effettivamente da esse regole; ed aggiungo che queste sono errate da chiunque le
immaginò, perchè incompatibili colla natura dell'uomo, perchè seguendole, il
poema epico non può produrre il grande e forte e bello effetto ch'ei deve, o per
lo meno
3097 non può produrre il maggiore e migliore
effetto che gli sia d'altronde e in se stesso possibile; e che per conseguenza
esse regole sono cattive e false.
[3097,1] Nella Iliade pertanto non v'è unità.
Due sono realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl'interessi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo
di questi Eroi e per la sua causa, l'altro pel secondo e per la causa de' greci.
Interessi affatto contrarii che Omero
volle espressamente destare e desta, volle alimentare e mantenere continuamente
vivi ne' suoi lettori, e l'ottiene; volle far ciò dell'uno e dell'altro
interesse ugualmente e come di compagnia, e così fece.
[3097,2] È proprio degli uomini l'ammirar la fortuna e il
buon successo delle intraprese, l'essere strascinati da questo e da quella alla
lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al biasimo,
l'esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non l'ottenne, lo stimar
colui superiore al generale, costui uguale o inferiore,
3098 il credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo
od uguale; in somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà
degli uomini {di tutti i tempi} avea maggior luogo che
mai negli antichi. L'esser fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra
l'altre p. 4119
p. 4240
p. 4309 la p. 3072. fine
{+e p. 3342.}) E ciò per varie cagioni.
Primieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta dal merito, per modo
ch'eziandio non conoscendo il merito, ma conoscendo la fortuna d'alcuno, si
reputava aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come negli stati
liberi pochi avanzamenti si possono ottenere senz'alcuna sorta di merito reale,
e come gli antichissimi popoli nella distribuzione degli onori, delle dignità,
delle cariche, dei premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni
altra cosa, così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i
loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n'erano
degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si
stimavano compagni
3099 ed indizi de' pregi dell'animo
e de' costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l'altre felicità della nascita
cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi
maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti
nell'Elisio, s'interessassero più della terra che dell'Averno, e che gli Dei
fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che
considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocchè il
merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer {buono e} grande quello ch'è inutile? e se il merito era
infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa
terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato
luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?
[3099,1] Era dunque la felicità, principale ed essenzial
cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria presso gli
antichi, ancor
3100 più che presso i moderni; e
massimamente appo gli antichissimi. Perocchè insomma ella è cosa naturale il
pregiar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragionevole ch'ella tanto più
sia pregiata quanto i costumi, le opinioni e la vita degli uomini sono più
vicini e conformi alla natura, quali erano in fatti nella più remota antichità.
Omero dunque pigliando a esaltare un
Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e della sua lode,
e facendo materia del suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di
sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero conseguito
l'intento di quella impresa di ch'egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque
pigliare un Eroe fortunato.
[3100,1] E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero, e i
suoi pregi eroici il coraggio e valor dell'animo, e l'impresa una guerra.
Perocchè se ne' tempi moderni eziandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la
lode di quella guerra
3101 che non è terminata dalla
vittoria, molto più si deve stimare che così fosse appo gli antichi. Fra' quali
effettivamente l'esser vinto si teneva per ignominia, e il vincere in
qualsivoglia modo era gloria, non si considerando allora gran fatto altra
giustizia che quella dell'armi, altro diritto che della forza. Oltre che volendo
Omero nel suo poema (siccome poi
vollero gli altri epici) adombrar quasi un modello o un tipo di uomo superiore
al generale e maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, come
poteva egli farlo superiore agli altri uomini e singolarmente mirabile per le
virtù proprie della sua professione, s'ei non l'avesse fatto vittorioso? anzi
tale che niuno gli potesse resistere? Come poteva egli fare che questo Eroe
fosse vinto, cioè superato dagli altri in quelle virtù e qualità per le quali
egli intendeva di mostrarlo a tutti superiore e fra tutti unico, affine di
produrre la maraviglia, ed eseguire
3102 quel tipo di
compiuto guerriero ch'ei si proponeva? Non è della guerra come d'altre molte
imprese che possono venir fallite e mancare del loro intento a cagione di
ostacoli insuperabili all'uomo e di forze superiori alle umane. Ma la guerra è
dell'uomo coll'uomo, e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol far
superiore agli altri uomini e singolare nella sua specie per le virtù guerriere.
Chi cede nella guerra, cede all'uomo, cosa che oggidì potrà essere scusata ma di
rado lodata; fra gli antichiss. non che lodata, era pur di rado scusata, e
generalmente spregiata com'effetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene
involontaria, era poco meno spregiata della viltà, come lo sono anche oggidì
proporzionatamente e la debolezza e tanti altri difetti degl'individui o delle
nazioni, esteriori o interiori, che non dipendono dalla volontà di chi n'è il
soggetto. Dico che la guerra è
3103 dell'uomo
coll'uomo, sebbene Omero c'intramette
anche gli Dei. Ma questa finzione era per abbellire e non per alterare la natura
della guerra eccetto in alcune parti poco essenziali. Come quando s'introduce
Achille alle prese col Csanto. Nel
qual caso, non essendo la battaglia d'uomo con uomo, ma colla superior potenza
di un Dio, Omero non si fa scrupolo
d'introdurre Achille chiedente aiuto e
fuggente, nè stima che questo tolga alla sua superiorità, perch'ei lo vuol far
superiore agli uomini non agli Dei, e vittorioso nella guerra de' mortali, non
degli Eterni. E infatti l'intervento degli Dei, come non doveva (volendo
conservare il buono effetto) alterare, così {effettivamente} non altera appresso Omero la sostanza della guerra umana.
[3103,1] Conveniva dunque che l'Eroe e la nazione presa da
Omero a celebrare fossero fortunati
e vittoriosi, massimamente aggiungendosi alle
3104
predette considerazioni generali questa particolarità che l'Eroe da Omero celebrato era greco, e la nazione
era la greca, cioè quella alla quale egli cantava e a cui egli apparteneva, e la
guerra era stata contro i Barbari. Molto conveniente cosa, pigliare per soggetto
del poema epico le lodi e le imprese della propria nazione e una guerra contro i
perpetui e naturali nemici di lei, ciò erano i Barbari. Cosa che raddoppiava,
anzi moltiplicava l'interesse del poema, siccome accade nella
Lusiade, siccome ancora nell'Eneide ec. Onde Isocrate
pensa che gran parte della celebrità di Omero e della grazia in che sempre furono i suoi poemi appo i greci,
derivi dal patriotismo de' medesimi {poemi} e dalle
battaglie e vittorie contro i Barbari, che in essi sono celebrate. (Vedilo nel Panegirico, edizione del Battie
Isocr. Oratt. 7. et epistt. Cantabrig. 1729. p. 175-6.) Or come
poteva Omero fingere o narrar perditori
3105 la sua nazione e un Eroe della medesima, e ciò
in una guerra contro i Barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato tanto più
assurdo che tra i moderni, quando anche le lodi e l'interesse del poema fossero
stati tutti per li greci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero avesse mosso le lagrime e i
singhiozzi sopra le loro sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di maniera,
che sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. Frinico ateniese, gran tempo dopo
Omero, fece suggetto di una tragedia
la presa di Mileto fatta da Dario, e mosse gli uditori a pietà sopra quella
sciagura dei greci per modo, che, secondo l'espressione di Longino (sect. 24.) tutto il teatro si sciolse in
lagrime. Gli Ateniesi lo multarono in mille dramme (Plut. politic.
praecept. Strabo 1. 14.
{+Schol. Aristoph. Vesp.)} perch'egli avea
rinfrescato la memoria delle domestiche calamità e ripostele sotto gli occhi
rappresentandole al vivo (Herodot. l. 6. c. 21.);
3106 di più vietarono {con decreto} che
quella tragedia fosse più recata sulle scene (Tzetz.
Chil. 8. (alibi reperio 7.) hist.
156.): anzi secondo Eliano (Var. l. 13. c. 17.), lagrimando, lo cacciarono dal teatro
esso stesso che stava rappresentando la sua propria tragedia. (V. Fabric.
B. G. in Catal. Tragicorum, Meurs.
Bibl. Att.
Bentley
Diss. ad
Ep. Phalar. p. 256.) {{v. p.
4078.}}
[3106,1] Adunque per tutte queste cagioni doveva nell'Eroe di
Omero e nella nazione da lui
celebrata concorrere colla virtù la fortuna. Ed ecco l'uno degl'interessi che
campeggiano nell'iliade senza interruzione per tutto il corpo del
poema: interesse il quale consiste nell'ammirazione ispirata dalla straordinaria
e superiore virtù; al quale interesse e alla qual maraviglia, cioè al pieno
effetto di tal virtù descritta e figurata nel poema, richiedevasi
necessariamente la felicità e il buon successo, che in tutti i tempi, ma negli
antichissimi principalmente, sono considerati come il compimento della virtù,
anzi pure come indispensabile perfezione
3107 di lei, o
come solo indizio che possa dimostrarla veramente perfetta e somma.
[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione.
{Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}

[3109,1] Tornando al proposito, il primo dei detti interessi,
cioè quello della maraviglia era rilevato in Omero dalla circostanza che l'ammirazione cadeva sopra la
superiorità, la virtù e la felicità di un eroe e di un esercito nazionale, sopra
un'impresa fatta dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali nemici.
Questa circostanza rendeva non solamente possibile {ma
naturalissima la vivacità e} la durata di tale interesse ne' lettori o
uditori greci (per li quali scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta questa circostanza, il
detto interesse non può esser nè molto vivo nè molto durevole. Il lettore non
s'interessa gran fatto per coloro per cui vede continuamente interessarsi lo
stesso poeta. L'interesse del lettore (nel senso in cui presentemente ci
conviene intenderlo) è quasi una cura ch'egli si prende
3110 di quelle persone su cui l'interesse cade. Or dunque il lettore
trova inutile il darsi gran pensiero di quelli a' quali vede aversi bastante
cura da altri. Il poeta e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe a
fare il lettore interessandosi; essi medesimi provveggono al fortunato: il
lettore non ha dunque niuna cagione di farlo egli, ei non desidera quello che
gli è spontaneamente dato, quello ch'egli ottiene già senza darsene briga e
sollecitudine. Per queste cagioni accade che poco e poco durevolmente
c'interessi il fortunato, massime ne' poemi epici e ne' drammatici. Ed
effettivamente oggidì i lettori della stessa iliade, non essendo
greci, o non s'interessano mai vivamente per li greci, i quali sanno già dovere
uscir vittoriosi, o presto lasciano d'interessarsene. {#1. Veggasi la p.
3452 fine-58.} Ma non bisogna dall'effetto che
l'iliade fa in noi, misurar quello ch'ei faceva nei greci, ai
quali essa era destinata, nè per conseg. l'arte del poeta che la compose, nè il
pregio e valore del poema.
[3111,1]
3111 L'altro interesse, cioè quello della compassione,
non poteva Omero introdurlo nel suo
poema in modo ch'ei si riferisse ad Achille o ai greci; non poteva, dico, per le suddette ragioni.
Solamente poteva fare che la compassione si riferisse pur talvolta ai greci o a
qualcuno di loro, come a soggetti secondarii e accidentalmente {(qual è p. e. Patroclo),} non come a soggetto primario della compassione,
al qual soggetto tendessero tutte le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese
nella parte contraria alla greca, in quella parte alla quale doveva appartener
la sventura, se alla greca doveva appartener la felicità. Egli scelse o finse
tra' nemici un Eroe per così dir, di sventura, il quale fosse opposto all'Eroe
della fortuna, e l'interesse del quale dovesse perpetuamente bilanciare e
contrastare e accompagnare l'interesse dell'altro nell'animo de' lettori. Questo
Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, ed anche ad Aiace e a Diomede, perchè la superiorita delle forze doveva
3112 esser l'attributo e la lode principale della parte greca (lode
ch'era ai tempi eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe'
superiore a tutti gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità lo fece
pari allo stesso Achille, e nel
rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle di costui, lo venne però a far
tale che tanto pesasse egli quanto questi. Somma pietà verso gli Dei, verso la
patria, verso i parenti, somma affabilità, giovanezza, e viril bellezza sopra
ogni altra (giacchè quella di Paride non era virile) della sua parte. Di più
accortezza e destrezza nel maneggio della guerra e {nel
govño[governo]} delle battaglie,
vigilanza, provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche, arte di
parlare ne' consigli pubblici o a' soldati, disprezzo d'ogni pericolo, l'onore
stimato sopra ogni cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città vedendosi
venir sopra Achille, e dopo l'onore, la
patria; costanza ec. ec. In somma com'egli aveva fatto in Achille un uomo
3113 sommamente ammirabile, così fece e volle fare in
Ettore un eroe sommamente amabile. E come la
vittoria riportata da Achille sopra
l'invincibile Ettore, porta al colmo l'ammirazione per colui, così la sventura di
Ettore mette
il colmo alla sua amabilità e volge l'amore in compassione, la quale cadendo
sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire del sentimento amoroso. Molte
sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella
iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le
fila del medesimo niente meno e del paro che alla vittoria di Achille, e sempre unitamente: in essa il poema si
chiude. Alle quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell'interesse
nella iliade, e la sua sventura per se medesima il principale
scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e
intitolarlo la morte
d'Ettore, stimando che Omero non avesse bene inteso se
3114 stesso e la sua propria intenzione quando ne' primi versi della
iliade annunziò espressamente un altro assunto. Nel che
s'ingannò grandemente, per non aver mirato alla natura umana, alle qualità di
que' tempi, alle circostanze di Omero
(giacchè se oggi nell'iliade l'unico, non che principale,
interesse è per Ettore, non così fu anticamente, nè tale fu l'intenzione di Omero scrivendo ai greci), e per avere
avuto l'occhio alle moderne opinioni circa l'unità dell'interesse e del soggetto
principale. Ma come nell'intenzione di Omero l'unico interesse non dovette esser quello di Achille, nè l'unico soggetto e scopo la
sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un
tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l'interesse d'Ettore dovette esser l'unico, nè
la sua sventura per se medesima l'unico soggetto e scopo del poema. Doppio
dovette essere secondo l'intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì
3115 a'
lettori o uditori greci l'interesse, lo scopo, e l'Eroe del poema.
[3115,1] E qui si deve considerare il maraviglioso artifizio
di Omero. Non solevasi a' tempi eroici,
cioè quasi selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli portava la
parte contraria, quell'odio il quale faceva che ciascun soldato considerasse
l'esercito o la nazione opposta come nemici suoi personali, e con questo
sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima. E quando anche s'avesse
cagione di stimare il nemico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cercava
a tutto potere di deprimerlo sì nella propria immaginazione che presso gli
altri, e ricusava di riconoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva nè si
conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi fortemente combatte e di
chi vince è tanto maggiore quanto più forte e stimabile è il nemico e il vinto.
Ma sebbene allora
3116 ciascuno amasse e cercasse la
gloria sopra ogni altra cosa ed assai più che al presente, niuno si curava di
accrescerla a costo del proprio odio verso il nimico, niuno sosteneva di
aggrandire a' propri occhi o agli altrui il pregio della propria vittoria col
considerare e render giustizia al valore della resistenza; ognuno preferiva di
tenere anzi l'inimico per vile e codardo e tale rappresentarlo agli altri,
perchè l'odio e la vendetta più si soddisfa e gode disprezzando il nimico e
privandolo d'ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e vincendolo, e quasi
piuttosto eleggerebbe di soccombergli che di lodarlo. Una tal disposizione
offriva poche risorse, poca varietà, poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si
contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il
piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi
3117 di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e
valoroso. Questo piacere fu veramente Omero che lo concepì, Omero
che lo produsse; ei non era proprio de' tempi, non nasceva dalla maniera di
pensare e dalle disposizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia d'Omero; Omero per dir così ne fu l'inventore. Questo gli diede campo di
moltiplicare e intrecciar gl'interessi, di variar le passioni e gli effetti
cagionati dal suo poema nell'animo de' lettori.
[3117,1] Come la stima, così la compassione verso il nimico,
ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove
ho detto p. 2760
pp.
3108-109 in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo
morto Pallante). Gli animi naturali
non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La
compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle
persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto,
3118 dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli
animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli
animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere
ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di
una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente
ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua
azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi
in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è
che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli
animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle
campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco
intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di
Omero era certamente
3119 vivissimo e mobilissimo, e il sentimento
delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione,
lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza,
induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e
l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia.
{Veggasi la p. 3167-8. e pagg. 3291-7.
} Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de'
principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua
poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della
maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a
quel tempo era forse stato l'unico {+o il
principal} effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse
continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e
dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di
sentire. Questo suo intento è manifestissimo
3120 nel
suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più
colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia
prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo
luogo. Vedesi apertamente che Omero si
compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene
offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e
cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca
{a introdurre} il quale, e non ad altro, è destinata e
ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in troia, nel maggior
fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno {intempestivo} e imprudente), e che nell'une e nell'altre
ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le
circostanze che possono {eccitare e} accrescere la
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza
del cuore umano. E il soggetto di tutte
3121 queste
scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che
quegli stessi che Omero ha tolto a
deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ha[ad] esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far
piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi
avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.

[3121,1] Grande, caro, artifiziosissimo e poetichissimo
effetto dell'iliade, che Omero ottenne col duplicare espressamente e l'interesse e lo scopo e
l'Eroe, che non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera
di Omero, voglio dir l'unione e
l'armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d'introdurli
ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all'ultimo, facendoli
camminar sempre del pari. Con che oltre all'avere raddoppiato l'effetto del suo
poema, interessando per l'una parte l'immaginazione, per l'altra il cuore;
3122 oltre all'aver potuto congiungere l'interesse che
deriva dalla virtù felice con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che
non si poteva fare se non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, perocchè
accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato
divenisse felice, o di felice terminasse nella sventura, l'uno e l'altro
interesse sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l'uno
dell'altro, per modo che finita la lettura, l'un solo di essi sarebbe rimasto,
come accade p. e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine
{#1. V. la p. 3348.[p. 3448] segg.
e in particolare p. 3350-1[p.
3450-51].}); oltre, dico, all'aver potuto mettere in
moto nel suo poema ambedue quegl'interessi che fortissimamente operano
nell'uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono poetichissimi, cioè la
maraviglia della virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine,
interesse che in quei tempi principalmente era di gran forza, e la compassione
della somma virtù caduta in somma e non medicabile nè consolabile calamità;
3123 oltre tutto questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un
perpetuo contrasto di passioni contrarie continuamente operanti ne' lettori,
continuamente equilibrantisi l'una l'altra, continuamente sottentranti e
implicantisi e mescolantisi l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione
dell'interesse dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in
virtù di questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia
ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'iliade
nell'animo de' lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e
l'agitazione dello spirito, propria operazione della poesia.
[3123,1] Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il mezzo e l'arte da lui adoperati per
conseguirle, tale la vera natura, il vero carattere, il vero andamento del suo
poema, la vera forma ch'egli ha e che l'autore volle dargli. Vediamo ora gli
altri poeti epici e i loro poemi, e
3124 le regole
dell'epopea che dopo Omero furono
concepute e insegnate e poste e seguite.
[3124,1] Videro tutti la necessità di far che l'Eroe e la
impresa principale che si prendesse a lodare e a narrare nell'epopea riuscissero
felicemente. Ciò fu dato per regola, e questa regola fu seguita da tutti.
Massimamente che dietro l'esempio dell'iliade (benchè
l'odissea somministrasse pure un esempio diverso) non fu
stimato proprio soggetto di poema epico altro che imprese guerriere, nè d'altro
genere d'Eroe fu creduto che l'epopea dovesse rappresentare il modello, se non
che del gran Capitano. Onde parve tanto più necessaria la felicità nell'Eroe del
poema e nell'impresa che ne fosse il soggetto, non giudicandosi degno d'epopea
un Capitano vinto da' nemici nè una guerra perduta.
[3124,2] Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo
inconveniente che l'interesse che i lettori possono prendere per li fortunati,
ancorchè virtuosi, è scarso, debole e breve, e non
3125
si può reggere pel corso d'un lungo poema, nè tutto, per così dire, animarlo e
vivificarlo, nè anche sufficientemente animarne una sola parte. Mancando il
contrasto fra la virtù e la fortuna, oltre che ne scapita la verità
dell'imitazione, essendo pur troppo {il} vero che
questo contrasto sussiste nel mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato è
soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, e impedisce
l'illusione, {#1. Veggasi la p. 3451-2.} (massime a' {moderni} tempi, perchè a quelli d'Omero era altra cosa); ne seguiva anche il pessimo
effetto della freddezza, perchè il lettore non ha che interessarsi per la virtù,
vedendola felice, ed ottener già quello che le conviene.
[3125,1] Quindi è che ne' poemi epici posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla
avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità
non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un
3126 poema epico di lieto fine richiede necessariamente
la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema
epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un
interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze.
L'Eneide fu dunque poema nazionale, e
lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla
storia ed alla gloria de' Romani, l'Eneide anche
pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo di quegl'interessi che
abbiamo distinto in Omero, perocchè i
Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi {+o poteva
considerarsi} da essi come un successo e una gloria avita, e ad
essi appartenente, e da essi ereditata. Il
soggetto della Lusiade fu nazionale,
e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo
interesse di cui ragioniamo. {+Il soggetto dell'Enriade è
affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai
francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa,
massime ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi
forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana
da' tempi d'Omero.}
Il soggetto e l'
3127 eroe della Gerusalemme furono
anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad
interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola,
ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da
una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il
soggetto del Goffredo. Dico tanto
più degni, perchè essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che
nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che, trattandosi di
quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno
interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel
secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne' Cristiani
uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria
lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne'
costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana
3128 come cosa propria, e i nemici di lei come
propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio,
ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio
rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E
la liberazione del sepolcro di Cristo era
cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della
distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero
più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili:
aggiunta però di più la differenza de' tempi, perocchè nel cinquecento le
inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti,
decisi, vivi, forti e costanti ch'e' non possono essere in questo secolo.
Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O
aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti
esercitavano il loro ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con
poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi
d'europa
3129 a deporre le differenze scambievoli e collegarsi
insieme per liberar da' cani {#2. Petr.
Tr. della Fama cap. 2. terzina
48.} il Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani,
e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto
generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de'
gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta
libertà della voce e della stampa, massimamente in
italia, non eran pochi; {#1. Erano allora i politici privati più di numero in
italia che altrove, l'opposto appunto di
oggidì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore
in italia che altrove e più comune e divulgata
nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed
erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua
volgare, e tra gli altri per lo più in latino, fuorchè in
ispagna), e per l'altra una turbolenta
libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava
luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i
confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo
liberamente parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica
nello Stato italiano in ch'ei dapprima si trovava.} e di
questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni {digressioni} ec. e di quel progetto o sogno che vogliam
dire si riscaldava l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva
l'ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della
libertà della grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti
i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra
contro il gran re, e contro il {barbaro}
impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come
Isocrate
3130 per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue
studiatissime ed epidittiche, {+scritte e
non recitate} orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l'oraz. a
Filippo, edizione sopra cit. p. 260-1.) ora a Filippo, secondo ch'ei giudicava questo
o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la
grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500.
lo Speroni s'indirizzava pel detto effetto con una
{lavoratissima}
orazione stampata {+e non recitata nè da
recitarsi,} a Filippo II. di
Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni.
Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come
è fama (v. Eliano
Var. l. 13. e ὑπόϑεσ. τοῦ πρὸς
Φίλιπ. λόγου), dall'orazione appunto che Isocrate n' avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro già morti.
[3130,1] Or considerate queste circostanze si trova veramente
savissima, opportunissima, nobilissima la scelta fatta dal Tasso, e degna di quel grand'animo, che seppe
concepire nientemeno
3131 che un poema europeo (qual fu
il Goffredo non meno per l'argomento che per gli altri pregi),
dove la generalità dell'interesse non pregiudicasse (ch'è pur sì difficile e
raro) alla vivacità e forza del medesimo.
{Nótisi che il Tasso proccurò
eziandio di render nazionale l'argomento della
Gerusalemme col dare tra' Cristiani le maggiori parti
del valore a due italiani; Tancredi
di Campagna nel Napoletano il qual era patria del Tasso, e Rinaldo d'Este progenitore del Duca a cui il
Tasso indirizzava il
poema. E Rinaldo si è
propriamente, non pure il secondo, ma l'altro Eroe della
Gerusalemme con Goffredo, come ho detto p.
3525 a suo luogo, e, secondo l'intenzione del Tasso, a parti uguali, ma in
effetto e' riesce maggior di Goffr.} E in vero se dalla estensione
dell'interesse si deve misurare, almeno in qualche parte, il pregio d'un poema,
anzi d'ogni scrittura, niun poema epico in questa parte nè vinse nè agguagliò la
Gerusalemme; siccome ancora, secondo le opinioni di que'
tempi, ne' quali ci dobbiamo riporre coll'intelletto, niun poeta epico si
propose mai scopo più nobile nè più degno nè più magnanimo che il Tasso, il quale intese col suo poema di
contribuir più che tutti gli altri scrittori insieme, ad eccitare i principi
Cristiani a quella sacra e generosa guerra ec. coll'esempio e la lode di quelli
che l'avevano intrapresa e valorosamente operata e felicemente terminata. (Puoi
vedere per meglio conoscere le opinioni e i sentimenti
3132 dell'europa Cristiana verso
l'impero turco nel 500, la B. G. del Fabricio, t. 13., p. 500-6.)
{#1. V. p.
3173.}
{Vedi ancora
particolarmente lo Speroni
Oraz.
Ven. 1596. p. 23.
e p. 56. e 109 e Castiglione, Cortegiano
e. Ven. 1541. carta 173. ed.
Ven. 1565. p. 423-4, libro
4.}


[3132,1] Molto ragionevolmente adunque i sopraddetti poeti
(per non parlare degli altri, come di Voltaire e di Ercilla autore dell'Araucana, e del Trissino ec.) scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la
qual circostanza {+largamente però
intendendo la parola nazionale, come p. e. circa la
Gerusal.} è assolutamente impossibile dare alcuno
interesse a un poema epico che abbia e serbi la unità, com'ella oggi s'intende.
Ed è perciò ben poco lodevole l'assunto di quel moderno che volle dare
all'italia una nuova Gerusalemme.
(Arici, Gerusal.
distrutta).
[3132,2] Ma l'interesse che nasce dalla virtù felice è, come
ho detto, sempre debole anche in un soggetto nazionale, e soffre moltissimi
inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte parti si
rassomigliano ai presenti.
[3132,3] 1. Tutte quelle speciali circostanze che ne' tempi
antichissimi rendevano singolarmente pregevole
3133 la
felicità, e cagione di stima per se medesima, perirono ben tosto, ed altre
contrarie ne sottentrarono che produssero e producono contrario effetto, e
sempre lo produrranno, perchè queste seconde circostanze non sono per passar
mai.
[3133,1] 2. È così falso, {#1. Veggasi la p.
3451-2.} o per lo meno straordinario, che la virtù
sia compagna della fortuna, che un virtuoso fortunato, {+un meritevole che ottiene il suo merito (e tanto più
s'egli è straordinariamente meritevole, se la sua virtù è veramente
singolare, il che oggi sommamente nuoce)} eccede quasi quel grado di
singolarità e rarità che è compatibile colla credibilità, colla illusione,
coll'immedesimarsi che dee fare il lettore ne' casi e ne' personaggi narrati dal
poeta, con quella cotal somiglianza che il lettore dee pur trovare tra quei casi
e i presenti, tra quelle persone e se stesso; deve, {dico,} trovarla per qualche parte, a voler ch'ei ci provi interesse.
Di questo inconveniente ho già detto di sopra {#2. p.
3125.} Esso ancora non è mai per passare, anzi cresce e
crescerà, si conferma e confermerassi ogni dì maggiormente.
[3134,1]
3134 3. E ciò tanto più, quanto l'idea che noi abbiamo
della virtù è ben diversa da quella che s'aveva a' tempi d'Omero. La virtù qual suol essere concepita dai moderni
ha la fortuna assai più nemica, che non quella virtù concepita dagli
antichissimi, la quale consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e nel
coraggio; qualità che, se non sempre, certo assai spesso son seguite (anche
oggidì) dalla fortuna, e molto giovano a conseguirla. Ond'era tanto più
ragionevole e conveniente che a quei tempi l'eroe del poema epico, il quale
dev'esser sommamente virtuoso, si scegliesse felice, perchè quella virtù in
ch'ei si doveva rappresentare eccellente, conduce infatti alla felicità, e il
mostrar ch'ella non avesse conseguito il proprio intento, l'avrebbe mostrata
imperfetta, come quella che non {era} bastata a
produrre quel ch'ella suole, e a che ella naturalmente serve e conduce. Massime
che gli uomini sogliono giudicar dai successi,
3135 ed
estimare assolutamente la natura, le qualità, {il grado, il
valore} e la propria bontà delle cose dai loro effetti. Ma la virtù
modernamente considerata, è per sua stessa natura, non solo non conducente, ma
pregiudizievole alla fortuna. Questo discorso ha massimamente luogo ne' tempi
più moderni, in che l'idee morali, e per cagione del Cristianesimo e per altro,
sono più raffinate, e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono
inutili, e tanto si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno
segregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni
sono anche applicabilissime ai tempi di Virgilio; e in fatti la virtù di Enea è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe concepito e voluto
esprimere da Virgilio fu diversissimo, e
in buona parte contrario, a quello di Omero.
[3135,1] 4. Oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo.
Anche ne' romani al tempo di
3136
Virgilio esso era abbastanza raffreddato
perchè quasi niun di loro considerasse più la sua patria come cosa
individualmente sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e come
questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'essi manifestava nell'operare per la
patria, così produceva il grande interesse che ciascuno pigliava alle glorie
d'essa patria cantate dai poeti. Questo spirito non si trovava {più} ne' Romani, e però non potè essere se non mediocre
in esso loro l'interesse verso le vittorie e le lodi di remotissimi loro
antenati, che oltracciò portarono un nome diverso dal loro (troiani). Omero cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e
ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente tiranneggiati, perchè
quello fu quasi il più pacifico tempo dell'imperio
romano, e in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero del
giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò. Parlino i fatti; e se ne deduca
quanto vivo e
3137 durabile interesse possa cagionare
in un'epopea la nazionalità dell'impresa e dell'Eroe. Quando non esiste quasi
nazionalità nelle nazioni. Ciò vale sopra tutto per
l'italia.
[3137,1] 5. Finalmente l'interesse che può produrre in un
poema epico un Eroe ed un'impresa nazionale felice, nè può, come è chiaro,
riuscire universale, nè anche può essere perpetuo, come più sotto si mostrerà
cogli esempi. Unico interesse che possa in un'epopea riuscire universale e per
luogo e per tempo, cioè comune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è
quello che nasce dalla {sventura, e più dalla} virtù
sventurata, {+dalla beltà, dalla
giovanezza e anche dal valor militare personale sventurato.} E questo
altresì può {solo} esser vivissimo, e durare in chi
legge per tutto il corso della lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo
di poi, come pungolo lasciato nella piaga.
[3137,2] Ma l'unico modo che v'aveva d'introdurre questo
interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero nell'iliade, cioè di duplicare
onninamente l'Eroe, l'interesse e lo scopo poetico di tutta l'epopea, non
solamente
3138 dagli Epici posteriori ad Omero non fu voluto abbracciare, ma fu
sopra tutte l'altre cose fuggito, come quello che dirittamente avrebbe esclusa
quella unità d'interesse, di scopo e d'Eroe, che quei poeti e i Dottori de' loro
tempi e de' nostri, davano per primaria e supremamente indispensabile qualità
del poema epico: la unità, dico, non quale è quella della iliade,
dalla quale pur furono tratte le regole, le norme e il tipo dell'epopea, ma
quale i posteriori ingegni metafisicamente sottilizzando, e troppo
artisticamente e strettamente considerando, la concepirono, determinarono e
prescrissero. Ond'è che quantunque in ciascuno de' nominati poemi epici
v'abbiano molte sventure cantate, ed avendovi una parte vittoriosa e felice,
v'abbia altresì necessariamente una parte soccombente e sfortunata, si
guardarono però bene tutti i detti poeti di farci piangere sopra questa
sventura, come aveva fatto Omero; e di
condurre il poema in modo che
3139 all'ultimo la
vittoria della parte avventurosa, benchè {sempre}
desiderata e {allora} applaudita dal lettore, fosse nel
tempo medesimo cordialmente da lui pianta e lagrimata, destandosi così nel suo
animo sì pel corso del poema, sì massimamente nel fine, e durando in esso dopo
la lettura quel vivo contrasto di passioni e di {sentimenti,} quella mescolanza di dolore e di gioia e d'altri
similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e agli altri, e ne
moltiplica le forze, e cagiona nell'animo de' lettori una tempesta, un impeto,
un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui
principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee
sommamente muovere e agitare e non
già lasciar l'animo nostro in riposo e in calma. Questi mirabili effetti li
produsse divinamente la iliade, costringendo gli {uditori} greci a piangere sulla morte e sui funerali di
Ettore ucciso
dalle armi de' loro
3140 maggiori, in guerra, per loro,
giusta, e con giusta causa (cioè la vendetta di Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di
Andromaca e
della desolata città nemica, già vicina all'ultima calamità, che, per così dire,
le loro proprie armi o i loro proprii eserciti gli avevano infatti recata.
Sublimissimo effetto concepito, disegnato e prodotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non saputo
concepire nè produrre da verun altro epico in tempi civili. Perocchè temendo di
raddoppiar l'interesse, (ch'era appunto ciò che avevano a fare, e senza il che
non era possibile quel divino effetto), evitarono espressamente e studiosamente
di fare in modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa riuscisse più
che tanto virtuoso o per qualunque lato interessante sino al fine. E
maggiormente si guardarono di sempre ugualmente condurre e in ultimo annodare le
fila della loro epopea tanto all'esito
3141 dell'Eroe
vittorioso quanto a quello di un altro Eroe a lui per molti lati pari e seco lui
compensabile e comparabile ma soccombente. Come fece Omero, perchè nell'iliade
Ettore è, e fu
voluto rappresentare, espressamente comparabile ad Achille.
[3141,1]
Turno non occupa
se non pochissima parte dell'Eneide, e riesce
così poco interessante che certo la sua sventura e morte non ha mai tratto ad
alcuno un sospiro. Gli Eroi de' Barbari nella Gerusalemme sono
appostatamente {più d'uno} e di ugualissimo pregio,
{#1. Argante, Clorinda,
Solimano. Questi ed Argante sono anche
espressamente emuli, ma tutti tre pari di valore. Altri eroi
degl'infedeli non v'ha nella Gerus.
v. p. 3525.}
sicchè l'interesse non si determina per alcuno di loro, nè della loro morte o
calamità niuno si compiange, nè a veruna di queste morti o calamità tendono le
fila del poema. Di più il Tasso,
stante lo spirito del suo tempo, {+e stante che in quel caso pareva che la Religione
interdicesse, come suole, e confondesse colla empietà
l'imparzialità,} non potè a meno di rappresentare con
tratti odiosi (in alcuno più in altri manco, ma generalmente, {e
massime in Solimano ed Argante,} odiosi) i nemici de'
Cristiani. Quindi nella presa di Gerusalemme niuno sente
per niun modo la sventura e il disastro di quella città infedele, nè
3142 la presa è descritta {o
narrata} con intenzione di muovere a compatimento, nè in maniera da
poterne mai cagionare nè meno a caso. {+Altrettanto dicasi delle sconfitte degli eserciti maomettani o pagani.
E} similmente si discorra dell'altre moderne epopee.
[3142,1] Non è già che Virgilio e gli altri volessero e intendessero spogliare affatto
d'ogni valore, d'ogni virtù, d'ogni pregio la parte contraria alla vincitrice.
Anzi intendendosi a' tempi loro meglio che a' tempi d'Omero, che tanto più si loda colui che vince non per
caso ma per virtù, quanto s'amplifica quella del vinto, non lasciarono di volere
espressamente rappresentare virtuosi in molte parti e degni di stima e lodevoli
anche i nemici, sì tutti insieme, come parecchi distinti personaggi del loro
numero. Ma ciò facendo, intentissimamente evitarono che l'interesse pe' nemici o
per alcuno de' medesimi non giungesse di gran lunga a pareggiare quello che
volevano ispirare ai lettori verso la parte e l'Eroe vittoriosi. Nel che
riuscirono ottimamente, anzi al di là della loro intenzione, perchè laddove essi
vollero pur
3143 comunicare alcun poco d'interesse a
questo o quel personaggio nemico o alla parte inimica, niuno gliene
comunicarono.
[3143,1] Queste sono le forme di poema epico, e queste le
regole e il processo seguiti e adoperati dall'una parte da Omero, dall'altra parte dai poeti epici che, per dir
così, da lui nacquero. Comparate così le forme, l'idea, e se così vogliamo dire,
le cagioni, {+e le intenzioni de'
poeti,} consideriamo ora generalmente e paragoniamo i rispettivi
effetti.
[3143,2] Nell'iliade oggidì l'interesse per
Achille e per li greci, come ho
detto, è poco o niuno, perchè i suoi lettori non sono più greci. Nondimeno
l'interesse nell'iliade è vivissimo continuo e durevole eziandio
dopo la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I lettori di qualsivoglia
nazione, dopo tanti secoli, dopo tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano,
tutti efficacemente {e continuamente} s'interessano
leggendo la iliade. E tutti non per altri che per li troiani e
per Ettore, cioè
per la sventura; e questo interesse
3144 si riduce
principalmente e come a suo capo alla compassione. Questa cioè è quel sentimento
dominante e finale, che noi nella iliade provando, chiamiamo
interesse della medesima. Le quali cose mossero il Cesarotti a intitolar quel poema, come ho detto pp.
3113-14, La Morte d'Ettore, misurando
l'indole e l'intento {+primitivo, proprio
e vero} del poema dall'effetto ch'ei produce sopra di noi in tanta
diversità e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, {di
carattere} e di costumi. Nell'Eneide
l'interesse della compassione non v'è. Dico non v'è, come interesse finale.
Quello che si concepisce per Didone,
quello per Niso ed Eurialo sono interessi episodici che non ci
accompagnano se non per piccola parte del poema, nè hanno che fare colla
sostanza e collo scopo di esso, talmente che possono affatto risecarsi senza che
la testura nè il principale e finale effetto del poema per nulla se ne risentano
o ne siano cangiati. L'interesse per l'Eroe felice, cioè per Enea, e per la parte felice, cioè per li troiani,
dovette esser mediocre anche a principio,
3145 come di
sopra ho mostrato, ed ora è più che mediocre. E ciò, non ostante che il lettore
di Virgilio non possa quasi a meno di
trasferire o di continuare ne' fortunati troiani dell'Eneide quell'interesse ch'egli ha conceputo per gli sfortunati e
vinti troiani della iliade. Perocchè egli è certissimo che
l'iliade oltre all'aver partorito l'Eneide, oltre all'averla nutrita e cresciuta, per dir così, del suo
proprio latte, {+(voglio dire averle
somministrato l'argomento e i materiali in gran parte, o datogliene
l'occasione, e d'altronde averle porto i mezzi {e}
i modi di trattarla, e gli ornamenti ec. cioè il modello, e le immagini, e
le forme delle invenzioni, dell'ordine, dello stile poetico ec.)} la
sostiene e l'aiuta anche oggidì, comunicandole parte del suo proprio interesse,
{riscaldandola del suo
fuoco,} e riverberandosi sulla Eneide
e in essa influendo e derivandosi e quasi irrigandola gli affetti che la lettura
o la notizia della iliade inspirò. Laonde se la Eneide, quanto al suo principal soggetto ispira
alcuno interesse, egli è pur da notare che grande e forse la massima parte di
esso, non a lei propriamente appartiene, ma le vien di fuori, e l'è totalmente
accidentale ed estrinseco, non interiore ed
essenziale, nè in essa
3146 nasce ma altrove
ed anteriormente nacque. Il che non si deve confondere col proprio e nativo
interesse dell'Eneide. {#1. Di questi interessi accidentali vedi la pag. 2645-8..}
[3146,1] La Lusiade avrà certo interessato ed
interesserà forse anche oggidì i lettori portoghesi, nè si può bastantemente
lodare lo sfortunato Camoens per l'avere scelto un soggetto così strettamente nazionale, e
di più per l'aver saputo adattare e far materia di poema epico un argomento
allora modernissimo, qualità che per l'una parte produce estreme difficoltà le
quali a molti sono sembrate {in un poema epico}
insuperabili, e per l'altra sommamente contribuirebbe a produrre o singolarmente
accrescere l'interesse d'un'epopea, come ancora di un dramma e di qualsivoglia
poesia. Ma per li lettori dell'altre nazioni non so quanto nella
Lusiade possa essere l'interesse, nè se ne' medesimi
portoghesi, mancata la recente memoria di quelle imprese, e raffreddato, come
per tutta l'europa, l'amor nazionale e gli altri
sentimenti magnanimi, la Lusiade produca per ancora un interesse
abbastanza
3147 vivo, continuo e durabile.
[3147,1] Quello spirito dell'italia e
dell'europa Cristiana verso gl'infedeli (e, diciamolo
ancora, verso il Cristianesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tempo del
Tasso e ne'
precedenti, che in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la
Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre
condizioni a questo riguardo sono affatto cangiate in tutta
l'europa. Nullo è dunque oggidì l'interesse della
Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha
più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non ispira più
quell'interesse ch'ella principalmente e per istituto si propone d'ispirare;
perocchè esso non ha più luogo negli animi de' lettori, affatto cangiati come
sono, nè può più nascere in alcuno quell'interesse, essendo mutate e quasi volte
in contrario le circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo
tempo ispirò moltissimo interesse, e forse maggiore che l'Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale
nelle colte nazioni,
3148 dove quello dell'Eneide non potè esser che nazionale. Nè certo la
Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora non per tanto non può
più produrlo. Interessi però episodici e non finali ve n'hanno molti nella
Gerusalemme. V'ha quello di Olindo e Sofronia e nasce dalla
sventura. V'ha quello di Erminia, quello di Clorinda, e nascono dalla
sventura. V'ha quello del Danese, e
nasce dalla sventura, e, quel ch'è notabile, da sventura toccante alla stessa
parte che aveva a {riuscir} vittoriosa e fortunata,
cioè a dire alla Cristiana. Colla quale occasione è da considerare la bella e
straordinaria facoltà che {concedeva} al Tasso lo spirito del
suo tempo, cioè di congiungere la compassione alla felicità, di far nascere
questa da quella, di salvar l'{estrema} unità che si
esigeva ne' poemi epici pigliando un Eroe felice e facendolo non per tanto
compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, difficile e di poco buono
effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che al suo tempo fiorivano) riponendo
3149 la felicità propria dell'uomo nell'altra vita,
facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure {temporali} come vantaggi e reali fortune, insegnando
massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per
Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare
come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale,
facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec, poteva pur
fare sommamente compassionevole e tenero. Nè altrimenti egli si governò circa il
Danese, il
quale ei non diede {{già}} per infelice, ma per
felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo
stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la
temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei
non si volle prevalere di tal facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo
tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone)
3150 e in episodii; e l'eroe principale volle farlo felice non solo
eternamente ma temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene
uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non
m'ardisco però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s'ei credette che
i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa
forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, nè potessero
molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome
essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi
secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun tempo a cangiare la natura
umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di
opinioni e di dogmi, l'una dall'altra distinta, e che quasi nulla comunicavano
insieme, {tenevano} all'età del Tasso e ne' secoli a lei precedenti gl'intelletti
degli uomini. L'una Cristiana, l'altra naturale; quella quasi del tutto
inefficace
3151 e inattiva, la cui forza non si
stendeva fuori dell'intelletto e ne' termini di questo si restringeva la sua
esistenza; l'altra efficace attiva che dall'intelletto stendevasi a influire e
muovere la volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocchè gli uomini
sono sempre mossi dalle opinioni, nè altro che le opinioni può cagionare le loro
azioni volontarie, nè v'ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia
giudizio dell'intelletto, non derivi. Ma l'intelletto umano è capace di
contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di
contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà, come
accadeva ai detti tempi. Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo,
quando un solo genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della
religione, ed era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle
azioni interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel
che può credere
3152 chi non conosce la storia
ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai
nomi, e dal linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro,
divenne in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna età,
nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che nell'intelletto
puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla poesia, talora non
possono (come le presenti, e vedi la pag. 2944-6. ), talor più, talora meno; queste sempre
pochissimo o nulla. {+Parlo delle
opinioni che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non
dell'altre, che son fuori del mio discorso. P. e. quelle opinioni, illusioni
ec. antiche o moderne che derivando dalla immaginazione {o dall'esperienza ec.} persuasero e occuparono, o persuadono ec.
l'intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che far colla pratica della vita
per lor natura, non influiscono sulla volontà, e sono inefficaci, e queste
possono però, ed anche grandemente, servire alla poesia.}
[3152,1] Da questa digressione, non aliena, cred'io, dal
proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi
assurdo che Omero in tempi feroci abbia
tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n'abbia fatto un interesse
principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche
oggidì, mancato l'altro interesse all'iliade, non si può forse
tuttavia legger cosa che
3153 tanto interessi, non
avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione {quasi unicamente}
sopra i nemici de' greci suoi compatriotti, a' quali scriveva, i quali non
istimavano gran fatto la gerosità[generosità]
verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni
abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d'interesse
finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici
della parte e dell'Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella
Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch'ei la fa morir convertita, {e nel med. canto la scuopre per cristiana di genitori e di
nazione;} sì ch'ella cade in ultimo, secondo l'intenzione finale del
poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e
certo {egli avrebbe dovuto} accadere, tutto
l'opposto.
[3153,1] 1. Quella raffinatezza dell'amor proprio e della
facoltà di sentire, la quale è necessaria perchè la compassione trovi luogo
nell'animo umano,
3154 la produce, e seco il piacere
ch'altri ne gusta non fu in alcun modo propria de' tempi d'Omero, e proprissima di quelli di Virgilio e de' moderni, perocch'ella nasce dalla
civiltà. Parlo qui della compassione inefficace, qual è quella che si prova
leggendo un poema, e che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili,
massime destandovela lo charme e l'artifizio della
poesia, e degli abili prosatori. La compassione efficace la qual ci muove a
sovvenire alle miserie altrui, nasce anch'essa dalla detta raffinatezza, e
quindi dalla civiltà, ma richiede una raffinatezza maggiore di quella che la
civiltà soglia ordinariamente produrre e produca nel comune degli uomini, e una
facoltà naturale di sentire maggior dell'ordinaria, e quindi ella è e fu in ogni
tempo ben rara.
[3154,1] 2. Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore,
moltissimo l'immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione
3155 è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita,
estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì
difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed
esser grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per
ciò che da lei deriva, come furono Omero
e Dante. Se l'animo degli uomini colti è
ancor capace d'alcuna impressione, d'alcun sentimento vivo, sublime e poetico,
questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti oggidì appresso gli altri
poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del
tutto all'immaginazione, quello gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su
quello realmente operano sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I
poeti d'immaginazione oggidì, manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la
ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che
si espressero dal cervello e dall'ingegno,
3156 e si crearono e fabbricarono
una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e
riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e non
fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne' moderni {scrittori} sono di pura immaginazione. Lord Byron è un'eccezione di regola,
forse unica, per se stesso. {V. p. 3477.} Quanto all'effetto
delle sue poesie sopra i lettori, dubito ch'elle debbano essere eccettuate dal
numero delle altre poesie d'immaginazione. {V. p. 3821.} L'animo nostro è
troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch'egli ha
conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta. {#1. Anche Omero e
Dante hanno assai che fare per
ridestar la nostra immaginazione. Contuttociò, quantunque la fantasia di
L. Byron sia
certo naturalmente straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in
grandissima parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede
chiaramente che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito
contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispirazione e da fantasia
spontaneamente mossa.} Ora tra i poeti epici egli è pure strano che
Omero antichissimo abbia tanto
mirato al cuore, e che Virgilio e i
moderni non si sieno proposti per oggetto finale ed essenziale de' loro poemi
che di muovere l'immaginazione. Perocchè il soggetto essenziale e unico
principale de' loro poemi si è un Eroe felice e un'impresa felicemente
3157 terminata. Ora la felicità non vale che per la
maraviglia, la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono
fare errare i più grandi spiriti le regole e l'arte, e tanto nascondere la
natura dell'uomo, de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e
occultare il proprio scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch'essi
intraprendono ed alle quali esse regole appartengono.
{Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè
l'iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non
parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non
episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è,
dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a
dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed
opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli
uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente
dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano.
Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.}

[3157,1] 3. Le idee, i principii di generosità, di equità, di
umanità, {di beneficenza} verso il nemico sì ne'
giudizi sì ne' sentimenti sì nelle azioni, nacquero, si può dir, dopo Omero, mitigati che furono i ferocissimi
{e} implacabili {ed
eterni} odi nazionali, proprii degli uomini ancor vicini a natura.
Essi principii sono massimamente comuni ed efficaci ne' tempi moderni, ne' quali non vi possono avere odi
nazionali, non avendovi quasi nazioni, e niuno individuo considera, come
anticamente, per nemici personali quelli della nazione, i quali altresì ed
effettivamente nol sono nè per sentimento nè per fatto, ma nemici
3158 solamente del suo re ec. Anzi i detti principii
oggi degenerano in totale indifferenza verso il nemico della nazione, la qual
porta a non distinguerlo quasi affatto dall'amico. Or non è egli maraviglioso
che il poema d'Omero sia cento volte più
imparziale e generoso verso i nemici della sua propria nazione, che non sono i
poemi moderni verso la parte contraria a quella ch'in essi si celebra? e tanto
che volendo nella iliade investigare i proprii sentimenti del
poeta, e non mirando se non se all'espressione di questi, appena si potrebbe
oggi distinguere se Omero fosse greco o
troiano, o d'una terza nazione, {+e in
quest'ultimo caso,} per qual di quelle due fosse più propenso nel suo
animo.
[3158,1] 4. Oggi, come ho già detto p. 564
pp.
3141. sgg., e proporzionatamente eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non esista
interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano, e
che il pubblico rappresentano,
3159 anzi, si può dir,
lo compongono {e} costituiscono. Ed è ben cosa
ragionevole e consentanea che l'interesse pubblico negli altri più non esista (e
chi governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che
qualche felicità {e gloria} nazionale, poco possono
oggidì interessare, o certo assai meno che a' tempi d'Omero. Ma la sventura, e massime degl'immeritevoli, è
sempre dell'interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi
infelice e conseguentemente nol sia, e niuno è parimente che non si reputi
immeritevole della infelicità ch'ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni
a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poichè {+per le circostanze politiche} la vita non ha più
come {vivamente} occuparsi e distrarsi, e {d'altronde} il lume della filosofia dissipa ben tosto, o
soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità.
Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era
3160 tanto più conveniente oggidì che a' tempi d'Omero il far molto giuocare ne' poemi epici le sventure
degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni
civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed {è} il sentimento e il pensiero per così dir dominante, {+da cui niuno oramai trova più come
distrarsi.} E la infelicità individuale degli uomini è, per così dire,
il carattere o il segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d'Omero, il quale forse godette di quella
maggior felicità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo nello stato
sociale, e che sempre risulta dalla grande attività della vita e dalle grandi
{e forti} illusioni, cose proprissime di quel
tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure
cantate da' poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni
altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l'universale
e più continuo sentimento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente gli
uomini di parlare e
3161 udir parlare delle cose
proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e
dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, nè
potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e
compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne' poeti i suoi
propri sentimenti, e contando per somma ventura ogni volta ch'egli incontra o
nella vita o ne' libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o
di opinioni o di carattere o di pensieri o d'inclinazioni o di modi o di vita e
abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure
coll'esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante
in altrui {+(e ciò in soggetto e
circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne'
poemi epici),} innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del
poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella
lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità qualora leggendo i poeti
(versificatori o prosatori) {o le storie} noi ci
sentiamo
3162 commuovere da quelle vere o finte
calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le
miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in
quel med. punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al
pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch'è vera e propria e debita arte, e
dev'essere scopo, del poeta l'occasionarla) è principal cagione di quelle nostre
lagrime. E ci accade allora (e così ne' teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se
destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di Omero. {+Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera
più {particolarmente} appartenenti ai lettori,
interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non
è quella dello sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e
pronto il passaggio dell'animo del lettore da quelle calamità alle sue
proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia
nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la
nazionalità conferirà moltissimo all'interesse.}
[3162,1] Venendo oramai a ristringere il mio discorso, dico
che l'iliade, benchè, oltre al non esser noi greci, sieno corsi
da ch'ella fu scritta o cantata, ben ventisette secoli, con tutte quelle
innumerabili e sostanzialissime diversità che sì lungo tratto di tempo ha
portato allo spirito ed alle circostanze esteriori
3163
e interiori dell'uomo e delle nazioni, c'interessa senz'alcun paragone più che
l'Eneide scritta in tempi tanto posteriori,
e più conformi ai nostri, ed aiutata {pur} grandemente
come ho detto, dall'interesse medesimo della iliade; più che la
Gerusalemme, più che altri tali poemi, i quali, massimamente
rispetto all'iliade, si possono dir nati l'altro ieri. Dico
c'interessa estremamente di più, intendendo dell'interesse totale e finale, e
risultante da tutto il poema, e diffuso e serpeggiante per tutto il corpo del
medesimo. Il quale interesse così inteso, manca quasi affatto ai poemi che dalla
iliade derivarono; perocchè non bisogna confonder con esso,
il piacere che ci cagiona la lettura di
tali poemi, derivante dallo stile, dalle immagini, dagli affetti, e da tali
altre cose che non hanno essenzialmente a far coll'ultimo e principale scopo e
scioglimento del poema; nè anche i particolari (o episodici o non episodici)
interessi qua e là sparsi, non finali nè continui
3164
o perpetui, e nascenti da questa o da quella parte e non dall'insieme e dal
tutto del poema; nè anche finalmente quell'interesse che può nascere dal
semplice intreccio, interesse di pura curiosità, che non aspira nè corre ad
altro che a voler essere informato dello scioglimento del nodo, conosciuto il
quale, esso interesse finisce; interesse pochissimo interessante, e
superficialissimo nell'animo; interesse che può esser sommo in poemi, drammi ed
opere di niuno interesse, anzi non è mai nè sommo nè principale nè anche molto
notabile e sensibile, se non se in poemi, drammi ed opere di niun intimo e
profondo interesse e di pochissimo valor poetico, perchè il destare, pascere e
soddisfare la curiosità non è effetto che abbia punto che fare colla natura
della poesia, nè le può esser altro che accidentale e secondario. Or dunque i
poemi derivati dalla iliade, leggonsi con molto piacere, destano
di tratto in tratto alcuno interesse più o men vivo e durabile,
3165 ma essi mancano quasi affatto di quell'interesse
totale, finale e perpetuo, di cui l'iliade, dopo 27 secoli, appo
uomini non greci, sommamente abbonda, e dal quale si dee senza fallo misurare il
pregio e il grado di bontà del complesso e dell'intero di un poema epico,
siccome d'ogni altro poema.
[3165,1] Per lo che tornando finalmente là donde incominciai,
conchiudo che tutto all'opposto di ciò che si dice e si crede, il poema
dell'iliade
{sarà forse} dai posteriori {poemi} vinto ne' dettagli o nelle qualità secondarie, come dir lo
stile, o alcuna parte di esso, qualche immagine, qualche parte o qualità
dell'invenzione; sarà forse eziandio vinto in alcuna parte della condotta, come
nel celare più studiosamente l'esito, laddove Omero par che studiosamente lo sveli innanzi tempo (e forse anche
questo si potrebbe difendere, e in ogni modo non nuoce che all'interesse di
curiosità, del quale Omero, o come
superficialissimo e non poetico ch'egli {è,}
3166 o come narrando forse cose universalmente allora
cognite alla nazione, non si fece alcun carico); ma che nell'insieme, nel totale
del disegno, nell'idea nello scopo e nell'effettivo risultato del tutto, tutti i
poemi epici cedono di gran lunga all'iliade. {#1. Veggasi la p.
3289-91.} E soggiungo che in ciò gli cedono appunto per aver
seguíto una unità che Omero non si
propose, e a causa di quello stesso incremento e stabilimento dell'arte che li
conformò e regolò, e che in essi si vanta, {e} che Omero non conobbe; e che peccano appunto
per quella maggior perfezione di disegno che loro si attribuisce sopra
l'iliade, e che in questa pretesa perfezione consiste appunto
il maggiore ed essenzial peccato del loro disegno, peccato che niuno ci
riconosce, non potendo però lasciare di sentirne gli effetti, ma rapportandoli a
non vere cagioni, e male esigendo che quei poemi producano effetti non
compatibili realmente con quel disegno che in essi lodano, e senza cui gli
avrebbero biasimati; e finalmente che Omero
3167 non conoscendo l'arte (che da lui nacque) e
seguendo solamente la natura e se stesso, cavò dalla sua propria immaginazione
ed ingegno un'idea, un concetto, un disegno di poema epico assai più vero, più
conforme alla natura dell'uomo e della poesia, più perfetto, che gli altri,
avendo il suo esempio e in esso guardando, e ridotta che fu ad arte la facoltà
ond'egli avea prodotto que' modelli, e determinata, {distinta} e stretta che fu da regole la poesia, non seppero di gran
lunga fare. (5.-11. Agosto. 1823.).