29. Maggio - 5. Giugno 1821.
[1104,1]
1104 Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati
somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de'
suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che
non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è
tutt'uno), nè del francese tirer. {+Traher vale alle volte dimenare e
muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto
{o in senso simile} si adopra spesso il
verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec. v. la Crusca in Trattare e specialmente §. 5.} Ora io
penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e
conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso
volgare. Ecco com'io la discorro.
[1104,2] Io dico che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti significati,
deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da
principio ancor questo verbo; e ne deriva così. I latini dal participio in tus
{(o dal supino)} di molti e molti verbi, soleano,
troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are, {(o in ari se deponente)} formare un nuovo verbo, che avea forza di
esprimere una continuazione, una maggior durata di quell'azione ch'era espressa
dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus, participio di
trahere, e significando fra le altre cose manu
1105
versare, significa (almeno nell'uso suo primitivo)
un'azione più continuata di quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo medesimo senso. Veniamo alle
prove.
[1105,1] Prima di tutto, che tractare venga da trahere è indubitato,
perchè, massime ne' più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota
di trahere, cioè trarre, tirare, strascinare. Così
anche quella di distrahere, dilaniare. (V. il Forcellini.) Dunque derivando da
trahere, ed avendo le sue significazioni note, io
dico che quelle altre che ha, e che non paiono appartenere al verbo trahere,
furono significazioni primitive, ed oggi ignote, di questo verbo. Colla
differenza che tractare
{propriamente} significa sempre un'azione più
continuata di quelle significate da trahere, come si
può, volendo, osservare anche nei detti significati ch'esso ebbe di tirare ec.
[1105,2] In secondo luogo che i latini avessero questo
costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di
altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione
che i primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.
[1105,3] Da adspicere (verbo
composto), participio,
1106
adspectus, i latini fecero adspectare. Ognuno può sentire la maggior durata dell'azione espressa
da adspectare rispetto a quella di adspicere.
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes. *
dice Virgilio (Aen. 5. 614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur {+(e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti di spectare). {{V. p. 2275. ed En. 6. 186. adspectans, e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens.}}} Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare. {{(v. se vuoi la p. 1388. fine.)}}
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes. *
dice Virgilio (Aen. 5. 614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur {+(e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti di spectare). {{V. p. 2275. ed En. 6. 186. adspectans, e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens.}}} Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare. {{(v. se vuoi la p. 1388. fine.)}}
[1106,1] Da raptus participio di
rapere viene raptare
cioè strascinare, azione come ognun vede, ben più
continuata e lunga di rapere.
[1106,2] Così da captus participio
di capere, si fa
1107
captare, che non importa continuazione di {capere o}
prendere, perchè l'azione del prendere non si può
continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma
cercare, accattare e
simili; azione continuata. {{V. il Forcellini.}}
{+E da acceptus di accipere,
acceptare, il cui significato continuativo si
può vedere nel secondo e 3.o esempio del
Forcellini, che
significano, non il semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere,
e dico continuato, e ben diverso dal frequente. V. p. 1148.
{{V. Exceptare in Virg.
Georg. 3.
274.}}}
{{e p. 2348.}}
[1107,1] Da saltus antico
participio di salire
{#(1.) Intorno ai participii in tus de' verbi neutri o attivi latini, come essendo
di desinenza passiva, avessero spesso la significazione attiva o neutra, v.
le note del Burmanno al Velleio
l. 2. c. 97. sect. 4.
{Infatti il latino secondo l'opinione volgare mancherebbe di
participi passati significanti azione, fuorchè
deponenti.}
V. Forcellini, voc. Musso.
fine, e v. Partus a um, e Pransus
{{e Coenatus, e p. 2277.}}
{{2340.}}} (o dal supino saltum ch'è tutt'uno) viene saltare. E qui
la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è
manifestissima. Perchè salire propriamente vale saltum
edere, e saltare, vale ballare ch'è una continuazione del salire, una serie di salti.
[1107,2] Così da cantus antico
participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava primitivamente un'azione ben più
continuata che il canere.
[1107,3] Da adventus antico
participio di advenire procede adventare, che significa l'azione continuata di avvicinarsi, o stare
per arrivare, laddove advenire significa l'atto del
giungere o del sopravvenire.
[1108,1]
1108
Del verbo tentare
dice il Forcellini che
deriva a sup. tentum verbi teneo.
Est enim
*
(notate) diu {et} multum tenere ac tractare, ut solent quippiam
exploraturi.
*
V. p. {2344. e
p.}
1992. principio.
[1108,2] Così {rictare da rictus di ringi,}
dictare da dictus participio
del verbo dicere, e ductare
da ductus del verbo ducere,
e {nuptare da nuptus di nubere, e flexare
del vecchio Catone da flexus ec.}
adfectare da adfectus
participio di adficere, {e adflictare da adflictus
di adfligere; e volutare
da volutus di volvere;}
{+e
{consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da commentus di comminisci e comminiscere}
natare dall'antico natus o natum di nare; e reptare (di
cui v. se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di
repere; e offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (v. Forcell. da argutus di
arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare
da pressus di premere (gl'ital. i franc. ec. e il glossar. hanno anche oppressare da oppressus); v. p.
2052.
p.
2349.} e vectare da vectus di vehere. {+V.
nel Forcellini gli es. i quali
dimostrano che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.).}
[1108,3]
Sectari che importa (chi ben l'osserva) un'azione più
continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza
fallo da secutus, participio di questo verbo,
contratto in sectus. O piuttosto da principio dissero
secutari, e poi per contrazione sectari. E acciò che che questa sincope non si stimi
un mio supposto (un ritrovato, un'immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari,
composto di secutari. Anzi io credo che questa prima
forma del verbo sectari abbia durato nel volgare
latino fino all'ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e
spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par
che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da
sequi. Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come affettare da
adfectare,
1109 e così
altre infinite parole. {+Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso più continuato
che seguire. v. p. 2117. fine.}
[1109,1] Sia poi che l'antico volgare latino, o che quello
de' tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso;
certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal
participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non
si trovano nella buona latinità; come {usare
(Glossar.)
abusare ec. da usus
di uti, ec.}
inventare da inventus
participio d'invenio, infettare da infectus participio d'inficio, {+traslatare da translatus di transferre, benchè da
questo verbo gl'italiani abbiano anche trasferire;
(translatare è nel Glossario.)}
{+fissare e ficcare
(fixer, fixar) da fixus ec. (Glossar.
fixare oculos.); disertare,
déserter ec.; despertar da experrectus di
expergiscere; v. p.
2194}
{+votare da votus di vovere; (glossar.) da junctus di jungere lo
spagnuolo juntar, (non è nel
Glossar. bensì Iuncta per Giunta,
voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare da invasus di
invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè {obsessus} a dęmone) confessare (Glossar.) da confessus di confiteri; e così mille altri. v. p. 1527. e p. 2023.} (I
due {primi} verbi non si trovano nel Du fresne). {V. p.
1142.} Parecchi de' quali stanno nelle lingue nostre
in cambio de' loro primitivi latini, usciti d'uso, {e pare
che nel formarli non si avesse più riguardo alla natura de' verbi
continuativi.}
[1109,2] A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di
alcune correzioni ed aggiunte al vocab. della Crusca. Vol. 1. par. 2.
Milano 1818. alla v. allettare. p.
42. seg.), il quale dice e sostiene che il nostro Allettare (e per conseguenza il latino adlectare ch'è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p. 43.) viene da Letto, come da Latte
Allattare, da Esca
Adescare, da Lena Allenare ed
altri a man piena;
*
che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi è
soavissima e giocondissima cosa,
1110 ne
seguì che Allettare, ossia Apprestare il letto, divenne subito per
metafora Invitar con lusinghe; e a poco a
poco la prepotente forza dell'uso fe' sì che il senso traslato si
mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni. Questa
etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta, potrebbe di
leggieri aprire la strada a trovare anche l'altra di Dilettare e Diletto con tutti i lor derivati,
*
per
conseguenza {(dico io)} del latino delectare, {illectare}
oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano
niente che fare con allicere al quale dà tutt'altra
etimologia. (p. 44.)
[1110,1] Lascio stare che quel significato metaforico, e la
successiva metamorfosi del significato di allettare,
se a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime,
e che tutto il filo de' suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe
facilmente per esser troppo sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha
veduto che adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio
di adlicio nello stessissimo modo che i tanti {verbi} soprammentovati, e i tanti altri che si
potrebbero mentovare. Ora allettare è azione
continuata, e così oblectare che significa trastullare ec. e così dilettare ec. Laddove adlicere è
propriamente l'atto del tirare, prendere,
1111
indurre colle lusinghe. E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente
significativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere (diverso da quello
formato da lac) significa propriamente un'azione
continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o
allettare. {V.
p. 2078.}
Giacchè anche nell'etimologia del verbo adlicere s'inganna il Monti (p. 44.) facendolo derivare dal licium o liccio
degl'incantamenti amorosi.
*
La sua etimologia, dic'egli, di cui non trovo chi sappia
darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa.
*
Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel
Forcellini v. allicio, e v. lacio.
Adlicio dunque (come inlicio
ec. ec.) è composto di ad e lacio
{(che deriva da lax, fraus)} mutata per la composizione la a in i, come {in}
adficio da facio, in adjicio da jacio ec. ec. Del
resto sebben diciamo {volgarmente e comunemente}
allettare per porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente
dall'adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto
è differente {nel significato e nell'origine,} e
uniforme nel suono, letto participio di leggere, da letto nome sostantivo. {+V. il
passo di Cic. addotto dal Monti, e provati di
sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi. {{In luogo che adlectare venga da lectus, Festo
dubito[dubitò] che lectus (sustantivo) venga da
adlicere. Forcell. in Lectus
i.}}}
[1111,1] Non bisogna confondere questo genere di verbi che io
chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior durata
dell'azione espressa da' loro verbi originari, con quello de' verbi
frequentativi,
1112 che importano frequenza della
medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi
(lasciando i frequentativi coll'infinito in essere che
non possono esser confusi co' nostri continuativi) si formano essi pure dal
participio in us o dal supino in um di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua
vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d'itare, o
itari se il verbo da cui si formano è deponente (o
passivo.) Così da lectus participio di legere, lectitare; così
{da victus o victum di vivere, victitare; da missus di
mittere, missitare;} da scriptus di scribere, scriptitare; {da esus di edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare} da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal
supino ventum), ventitare;
{da lusus di ludere, lusitare; da haesus
{+o haesum} di haerere, hęsitare;}
{da sumptus di sumere, sumptitare; da risus
di ridere, risitare
di Nevio.}
Eccetto però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si
doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo
la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del participio o del
supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè
meno a cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere facevano venditare;
{(non vendititare)}
{+da meritus di merere,
meritare; (il quale par continuativo e
talora denotante costume), da pavitus antico
participio di pavere, pavitare; da solitus ec. solitare;} da latitus antico participio, o da latitum antico supino di latere, fecero
1113
latitare; {da monitus di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum di
dormire, dormitare;
da licitus di liceri,
licitari; da vomitus
di vomere, vomitare;
da territus, territare;} da itus o itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da
exercitus part. di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; {+da strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus
o crepitum di crepare,
strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire, scitari, sciscitare e
sciscitari; da noscitus o noscitum antico supino o
part. di noscere, noscitare; da agitus antico particip. di
agere, contratto poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare.} La quale
eccezione merita d'esser notata, giacchè in questi casi la formazione de'
frequentativi non differisce da quella de' continuativi, e si potrebbero
confonder tra loro. Ed anche qualche verbo terminate[terminato] in itare o itari, ma formato da un participio o supino in itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta
ai continuativi, {(come p. e. agitare, domitare ec. e v. Forcellini in
tinnito)} vale a dire non
cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio o
supino. {V. p. 1338. principio.}
Minitari e minitare formati
da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e
troncamento non solo dell'us ma dell'atus del participio, affine di sfuggire il cattivo
suono atitare; o per mutazione dell'a del participio in i, fatta
allo stesso effetto. {+Similmente rogitare da rogatus di
rogare, coenitare da coenatus di coenare. V. p. 1154.}
{{V. p. 1656. capoverso
1.}}
[1113,1] Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto
spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate dai
Gramatici nè da' vocabolaristi. Il Forcellini chiama indifferentemente
frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo
continuativi. E s'inganna, perchè
1114 la differenza sì
della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte
di verbi. P. e. raptare, ch'egli chiama frequentativo
di rapere e {che} significa
strascinare, ognun vede che quest'azione non è
frequente ma continuata. E se i latini avessero voluto fare un frequentativo di
rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare, 9. 6. nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali
frequentativi in itare formati (com'egli pur nota) da'
participii de' verbi originarii. E i verbi {augere, salire, jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere,}
capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere, e altri
tali che hanno i loro continuativi, {auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare,
defensare,} captare, dictare, ductare {+(che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), V. p.
2340.}
factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati
tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno
pure i frequentativi {auctitare,
saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare,
defensitare,} captitare, dictitare, ductitare, factitare,
vectitare, ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per
significato proprio dai detti continuativi, e non derivati (certo
ordinariamente) da questi, (come va dicendo
qua e là il Forcellini) ma
immediatamente da' verbi originarii. {v. p. 1201.} Il verbo videre, {da cui nasce il} verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare)
ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio
1115
visus comune a videre col
suo continuativo visere, e ciò per anomalia. Legere e scribere che hanno
i loro frequentativi ec. si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de'
quali v. il Forcellini v. Lecto, che non
sono frequentativi, {nè lo stesso che lectitare e
scriptitare,} come dice esso Forcellini
ib. e v. Scripto.
{+Così pure del verbo vivere che ha
il frequentativo victitare, credono alcuni di
trovare in Plauto
victare (Captiv. 1. 1. v. 15.)
Da prandere che ha il
frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso aggettivo o
participio e sostantivo si trova nel Caro e in Dante. (Alberti). V. i Diz. spagnuoli.
v. p.
2194.}
{Da mansus di manere si
ha mantare (p. mansare), e mansitare. V. p. 2149.
fine.}
V. p. 1140.
{{e 2021.}}
[1115,1] Anzi non solo i gramatici non distinguono ch'io
sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch'io
sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante e che io
chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova è l'osservazione.
[1115,2] Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che
le significazioni e proprietà primitive de' verbi continuativi, frequentativi,
originarii, furono molte volte confuse nell'uso, non solo della barbara
latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori,
massime da' non antichissimi. E si adoperò p. e. il continuativo nel significato
del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo, e
s'adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i {buoni} latini dicevano salire, verbo oggi
perduto in questa significazione, e trasferito ad un'altra ec. ec. e per lo
latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); {v. p.
1162.} o forse anche il continuativo talvolta prese la forza del
1116 frequentativo, o {qualche
volta} viceversa; o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del
continuativo disusato o no. Differenze menome, e quasi metafisiche,
difficilissime o impossibili a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e
studiatissime; e gelosissime, anzi severissime della proprietà, come la latina;
e che dileguandosi appoco appoco, danno luogo alla nascita de' sinonimi, de'
quali vedi {{p. 1477. segg}}. {+E
il Forcellini nota molte volte che
il tale e tale frequentativo è spesso ed anche sempre usato nel senso medio
del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell'esistenza di questo genere
di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente e
originariamente. I verbi formati {nuovamente} da'
participj nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non
la forza del positivo latino. V. p.
2022.}
[1116,1] Questa facoltà de' continuativi, è una delle
bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina
diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad
esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo
tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e
modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici
per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e
senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua
ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua
italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi,
formandoli da' verbi originarii con modificazioni di desinenza. Verbi derivati,
che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare
{+e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o da pungere
ec.}; ora la sola diminutiva, come {+
tagliuzzare, sminuzzolare,}
1117
albeggiare (formato però non da altro verbo, ma da
nome, come altri pure de' precedenti; che così pure usa felicemente l'italiano),
{V. in questo proposito p. 1240-42. e nota che i
verbi in eggiare, par che almeno talvolta abbiano
un valore effettivamente continuativo, come fronteggiare, scarseggiare e molti, ma molti altri, e in diversi sensi continui, ben distinguibili dal frequente}
{e dal diminuitivo:
biancheggiare, rosseggiare, neutri ec.}
arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi);
ora l'una e l'altra insieme al modo de' verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare,
{formicolare ec. (v. il Monti a questa voce, e alla v. frequentativo).} E
di altre tali formazioni di verbi {e d'altre voci;
formazioni} arditissime, utilissime a significare le differenze delle
cose, e moltiplicare l'uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda
la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, {e la stessa greca.} Ma de' continuativi manca affatto,
se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche
frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. {V. p. 1155.} Manca pure,
cred'io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e
modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi
bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch'ebbe
questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in
dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di
tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal
formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero
pure de' continuativi già formati e introdotti.
1118
Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini {de'
migliori secoli,} non trovo notizia nè osservazione positiva di questa
proprietà della loro lingua. {{V. p.
1160.}}
[1118,1] Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi
tutti i verbi latini terminati nell'infinito in tare
{o tari (dico tare, non itare)} non sono altro
che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato
anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo,
adoperato quindi {bene spesso} in vece sua. E credo che
l'infinito di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il
supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us
o in um. Come optare,
secondo me, dinota un participio optus di un verbo
primitivo e sconosciuto, di cui optare
{sia} il continuativo. E mi conferma in questa opinione
il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato
in visere, un participio che non pare appartenente se
non ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo formato
quel verbo che rimane. Per esempio il verbo potare,
che, oltre potatus, ha il participio potus. Io credo che questo participio anomalo in detto
1119 verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio
regolare di un verbo che avesse il perfetto povi, come
motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus
vovi, notus
novi da nosco, di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus. E la prima
voce indicativa di detto verbo originario di potare,
sarebbe stata poo, chè appunto da πόω verbo greco
antico e disusato in questa {e nella più parte delle
sue} voci, stimano i gramatici che derivi potare. (Forcellini.) Ed osservo che la propria
significazione di potare è infatti continuativa, e
denota azione più lunga che il verbo bibere, come può
sentire ogni orecchio avvezzo alla buona {e vera}
latinità. Saepe est largius vino
indulgere, poculis deditum esse,
*
dice il Forcellini di esso verbo.
Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne' due primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cic., laddove nel terzo ch'è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di
quello scrittore più moderno, e meno accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus participio del verbo perduto ch'io dico, significa azione poco
continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset,
1120 subito illa in media potione exclamavit,
*
(Cic.) cioè nell'atto di
bere. Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente
e convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a
dimostrare e confermare sì l'esistenza del detto verbo originario di potare, {ed avente il participio
potus,} sì tutta la mia teoria de' verbi continuativi.
[1120,1] Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali
dinotanti l'esistenza di un verbo primitivo, di cui quel {verbo} che resta ed ha detto participio, è, {al
mio credere,} il continuativo. Auctare,
{come vedemmo p.
1114.} è continuativo di augere
dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus. Mactare è lo
stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus
(e lo dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un antico {e disusato verbo magere o}
maugere, cioè magis augere,
di cui {mactus è il participio,
e}
mactare il continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli attribuisce. {{V. p. 1938. capoverso 1. e p. 2136. e p. 2341.}}
[1120,2] Il verbo stare, secondo
me, indubitatamente è continuativo del verbo esse
formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum,
1121 piuttosto da situs o situm, contratto in stus o
stum. {V.
anche il Forc. in Lito as, principio, e in Luo is, fine.}
{+O forse da prima si disse sitare, come secutari, e
solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p. 1527.
e voltare per volutare ec. L'analogia fra il verbo essere e stare si
vede nel nostro particolare stato di essere, e nel franc. été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare.} Del qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch'è participio appunto di ser
essere. E forse sussiste ancora il detto participio
nel situs dei latini che significa collocato, ma che
spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a quello di un
participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima grazia fa derivare
da sinere. È noto che presso Plauto (Curcul. 1. 1. 89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che
verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che
l'antica congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de L. L. l. 8. c. 57.)
esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova
adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione
diuturnitatis
*
(v. sto), (e ne
reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di
esso verbo che è continuativo di esse. {+Adsentari che il Forcell. dice esser lo
stesso che adsentiri, forse non è altro
che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari. Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p. 487.) si
trova: Sentitare, in animo sensim
diiudicare.
V. p. 2200.}
V. p. 1155. {{e p. 2145. fine. e p. 2324.
fine.}}
[1121,1] A me par di poter asserire, 1. che tutti o quasi
tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non formati
da nomi, come populo da
1122
populus, o da altre voci), e regolari, cioè non
soggetti ad anomalie, constano {+sempre
di una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte} di tre sole
lettere radicali (al modo appunto de' verbi ebraici); come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e
costanti sono par, doc, leg, fac, dic. Talvolta di più
lettere radicali, ma {pure} di una sola sillaba, come
scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. {e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec.}
come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono
{cinque:}
scrib, e la sillaba è nondimeno una sola. Talvolta di
una sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e
così anche ponere, cedere e simili, dove le lettere
perpetue sono solamente po e ce, facendo posui, positum, positus; cessi,
cessum, cessus: ma questi tali anderebbero piuttosto fra' verbi
anomali. Potranno dire che il g di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l'a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo
stesso che dicsi; e il g di
legere si muta nel supino e participio in c per più dolcezza; non però
si perde nè si trascura come l'o di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono
alla sola inflessione de' verbi. E così
1123 dite
dell'a di facere, mutata
nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o
per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e
non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi e tegtum. {{V. p. 1153.}}
{Gli antichi latini scrivevano
effettivamente dicsi, e legsi e legs, e coniugs ec. e la X dei latini ora valeva CS ora GS. V. il Forcellini
lit. X, e l'Encyclopédie. Grammaire, lettre
X.}
[1123,1] 2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali e
regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima
persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come
i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch'è la {loro} radice) e tre nell'infinito.
[1123,2] 3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi
latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella
prima e terza persona presente singolare indicativa, più di tre sillabe
nell'infinito; non sono radicali, ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si
trovi da che fonte.
[1123,3] Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione che
hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in
audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla
regola di una sola sola sillaba radicale, non quanto a quella di due sole
1124 sillabe nella prima e terza persona indicativa, e
di tre sole nell'infinito. Nell'infinito, audire,
sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella terza
persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit,
sentit. Nella prima persona audio, sentio
pare che n'abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si contassero
queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe, considerando e
pronunziando per esempio l'io di audio, come dittongo. Al modo stesso che queste vocali così congiunte
sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle
forme sì del discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina
antica, di quello che somigli all'aurea latinità. {+Così l'antica pronunzia de' dittonghi greci che si
pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una
sola sillaba. De' quali dittonghi parlerò poco appresso. V. p. 1151.
fine.
e p. 2247. Queste considerazioni
indeboliscono assai anche l'eccezione che abbiamo riconosciuta ne' verbi
della 4. congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2. sillabe
radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d'inflessione, che
proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce
sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne' luoghi
specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.}
[1124,1] Lo stesso dico de' verbi della seconda
congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina
conosciuta, è trisillabo. {Lo stesso di facio, e simili.} Lo stesso de' verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza
essere della quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue, che anticamente,
secondo me, erano una sola sillaba.
[1124,2] Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe
anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e
terza persona singolare
1125
{presente} indicativa del perfetto, fossero parimente
dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, {+al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto
tempo e numero. V. p. 1231. capoverso 2.} Dei verbi della terza
congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare,
ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale
all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e
proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe):
perchè secondo essa opinione, docui
{e docuit} anticamente furono
dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono
trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo
fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a
tutti o quasi tutti i verbi {regolari} d'essa
congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire {che fa sensi.}
Audii ed audiit (che
troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che
ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La
lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente
alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E
1126 tanto sono lungi dal credere che la desinenza in
ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi
stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima
congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi
conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho
detto p. 1124. mezzo, (come anche
udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra
parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della
lettera v, consonne que l'ancien
Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à
l'intelligence des divines Ecritures. Lettre 6. à Paris
1751. t. 1. p. 167.)
{V. p. 2069.
principio.} E lasciando gli argomenti che si adducono
a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli
Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò
solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha
certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E
di più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.) (così lo cita il Forcell. nit. litt. u. nella mia edizione del
400. sta p. 16. fine) che {anticamente} la
lettera u multis italiae populis in usu non erat. E
che il v consonante fosse da principio appo i latini
una semplice
1127
aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me
dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre
greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come {ὄϊς ovis,}
vinum οἶνος, video εἴδω,
{viscus o viscum ἰξός. (Talora anche in luogo di spirito denso come υἱός,
onde gli Eoli υιός, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. p. 214. col.
2. sul principio, e in F.} ec. E ch'elle sieno parole
gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci
solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma
lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che presso i latini si disse
prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. {V. p.
2196.} Anzi di questa cosa non resterà più dubbio
nessuno se si leggerà quello che dice il
Forcellini (v. Digamma. e
vedilo), e Prisciano (p. 9. fine - 11. e vedilo). Da'
quali apparisce che il v consonante appresso gli
antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese
assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era
un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti
per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in
mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai,
amplia
Ϝit termina
Ϝitque
*
ha un'iscrizione presso il Grutero. {V. Encyclop. Grammaire, art.
F.
Cellar., Orthograph. Patav.
Comin.
1739. p. 11-15.} E v. il
luogo di Servio
nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione.
{+Dalle quali osservazioni essendo
chiaro che l'antico v latino fu {(come oggi fra' tedeschi)} lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione,
giacchè la f non fu da principio lettera, ma
aspirazione, {e lieve.} E così {viceversa} gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, {fuso,
figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca,
fender}, ora dicono hazer, herido, ahogar,
hurto, humo, {horca, hondo, hormiga, horno, huso,
higo, huìr, hender, hierro, hilo} ec. V. p.
1139.
e 1806.} In somma si vede chiaro
che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed
1128
ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di
dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre {e continuamente} cambiar faccia alle parole, col
successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in
regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. {{V. p. 1155. capoverso ult.
e p. 2242. capov. 1. e 2327.}}
[1128,1] Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti
non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno
una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio
fu tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte
le lingue primitive {+(balbettanti come
fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi;
(come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola,
accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e
finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d'ogni
misura, in forza per altro della imitazione, e dell'esempio che hanno di chi
le pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue)} e
come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota,
dal suo primo stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo.
Ecco come bisogna discorrere.
[1128,2] Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le
altre cose, quelli non composti {e non derivati} da
nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i
metafisici moderni s'accordano, che tutte le le lingue son cominciate e derivano
da' nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice
nomenclatura. (Sulzer.) È dunque indubitato
che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti,
giacchè le radici d'ogni lingua furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni,
1129 non s'inventarono certo nuove radici, che non
sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè passare prima che si pensasse a
formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già stabilita); ma si
derivarono dalle radici esistenti, cioè da' nomi. Ora vedendo che i verbi latini
che chiamiamo radicali, ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè
composizione ec. hanno una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro
radici vere, che certo furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo
linguaggio latino, la fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo.
Osserviamo per esempio i verbi pacare, regere, vocare,
ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e perfettamente sotto le
osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e 3 sole lettere radicali,
3. sillabe all'infinito ec. E tuttavia non gli possiamo chiamare radicali perchè
resta notizia de' nomi da cui sono formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di questi
monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le prime
ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, {+e similmente rex, e dux nella prima società.}
Così l'antico precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono
da prex e lax monosillabi.
Così sperare da spes. Così
arcere da {+arx che significa luogo alto, cima, altezza
(idea {certo} primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. V. p. 1204. fine. Così quiescere da quies, partire e partiri da
pars, tutte idee primitive. Lactare da lac. V. p. 2106.
principio.}
1130 Se così discorressimo intorno agli altri verbi
(dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal greco, o
d'altronde) che hanno una sola sillaba radicale, e che non si vede da qual nome
sieno derivate[derivati], potremmo forse più
volte ritrovare di questi nomi {perduti o mal noti,} e
tutti monosillabi. Legere lo fanno derivare da λέγω; e
lex
Cicerone e Varrone a legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome sia
prima del verbo. Oltre ch'è più facile, più conforme al meccanico
dell'etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa.
Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da
quello di legge, ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco, ed è tutt'altra
parola da quella ch'io voglio dire. Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo
intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali
composti. La prima parola è composta di ars e fax, la seconda di pons, e
fax, la terza di caro e
fax, cambiato in fex per
forza della composizione, come factus diviene fectus ne' composti, adfectus,
effectus, confectus ec. e facere
1131 nel perfetto ha feci, e
così iacere ha ieci, e {jactus fa}
adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec. Fra' quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato
dall'antica preposizione amphi rispondente alla greca
ἀμϕί, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da
caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad
altri, fra' quali il Forcellini.
Giacchè mi pare che risponda letteralmente al greco ἀμϕιλαϕής composto appunto
di ἀμϕί e di λαμβάνω capio, piuttosto che ad
ἀμφικάρηνος, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato
poi adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io credo
poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne'
di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps,
praeceps). La qual parola Varrone fa derivare da capere
(ap. Lact.
de Opif. Dei c. 5.) ed io per lo
contrario {capere} da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però io
credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput. Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello
è verbo, è ben più naturale,
1132 che prima sia stata
nominata la parte principale del corpo umano, e poi l'azione del prendere. E non
so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare
(volgarmente capare) che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè
cosa per cosa, o scegliere un
capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così capere da
principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo cioè una
cosa, nominando la parte principale pel tutto, o prendendo la metafora
dall'essere il capo la parte principale dell'uomo: onde i latini, (ed anche oggi
gl'italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque
personne. Alberti) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano.
{+V. ancora il §. 6. 7. e 10. della Crusca, voce Capo, e i
vocabolari francese e spagnuolo ec. V. chef etc. e il lat. caput nelle
significazioni di detti §§. della Crusca, e così anche i Lessici greci. V. p. 1691.}
[1132,1] La radice monosillaba dell'antico specere o spicere si
troverebbe similmente ne' composti auspex, haruspex,
cioè spex o spax. Così di
iungere in coniux o coniunx, cioè iux
{o iunx} ec. {{V. p. 1166. fine.
2367. principio.}}
[1132,2] E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi
radicali, {o tutti nomi, o quasi tutti,} che formavano
da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli
con {variazioni di significato, e con} innumerabili
inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a
cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze
delle cose che da principio si confondevano e accumulavano
1133 in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò
che doveva servire tanto alla necessità quanto all'utilità ed alla bellezza e a
tutti i pregi del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo
(anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e
perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del
mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un
albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di
questi monosillabi, come p. e. dux, che
somministrerebbe un'infinita figliuolanza, {+senza contare le tante inflessioni particolari di
ciascuno de' verbi o nomi derivati o composti ec. ne' loro diversi casi, o
persone {e numeri} e tempi e modi, e voci (attiva e
passiva);} e si vedrebbe per l'una parte quanto le vere radici sien
poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle
in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e
servire; per l'altra parte quanta sia l'immensa fecondità di una sola radice, e
le diversissime cose, e differenze loro, ch'ella si adatta ad esprimere mediante
i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
[1133,1] Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali
osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è
fatto finora, (della qual diligenza e profondità gl'inglesi e i tedeschi ci
hanno già dato l'esempio anche in questi particolari, massime negli
1134 ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la
classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l'analisi
delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe
forse a conoscere gran parte delle lingue primitive; (V. Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol. 4.
p. 61 - 64.) lo studio dell'etimologie diverrebbe infinitamente più
filosofico, utile ec. e giungerebbe tanto più in là di quello che soglia
arrestarsi; {+facendosi una strada
illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle parole,
e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole;} si
conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni, i
progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva {(e spesso la loro vera)} natura e proprietà; e si
scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili
e filologiche, ma fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue
è poco meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia
della mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima
luce alla storia delle nazioni. {{V. p. 1263. capoverso
2.}}
[1134,1] Osservo che la lingua latina è più atta a queste
speculazioni che la greca {, contro quello che può parere a
prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o
supposta.}
[1134,2] 1. L'infinità e l'immensa varietà delle
modificazioni che la lingua greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre
nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de' suoi
scrittori, a poterlo ed a farlo, {(principal causa della sua
potenza e ricchezza)} reca un grande impedimento a scoprire
1135 i primitivi elementi, e le vere ed ultime radici
di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle innumerabili e
differentissime diversificazioni di significato, di forma ec. che hanno
continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono. {Puoi vedere la p. 1242. marg.
fine.}
[1135,1] 2. Le diversissime relazioni ch'ebbero i popoli
greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le
colonie, le spedizioni d'ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori
a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che
hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze
per l'una parte, per l'altra mandate molte sue {proprie ed
antichissime} radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (V. in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua
Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi
massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto
sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori
relazioni con {forse} maggior numero di popoli, ma in
tempi più moderni. Il che 1.o diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2.o la
lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del
mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono
1136
le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno soggetta ad
esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3.o Conoscendo noi
bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le
alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle
nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua
che si parlava quando Roma o non era ancor
nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare
l'affinità del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca
derivata dall'origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto
questa per le loro osservazioni, dicendo che la penisola
d'Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della
grecia) alla pura trasmissione della lingua
originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla mescolanza di
nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi. (Edinburgh Review. Annali di
Scienze e lett.
Milano
1811. Gennaio. n. 13. p. 38. fine.)
{+E si trova effettivamente maggiore
analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e
sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime
forme. L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico,
il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di
carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno
d'aspirazione o spirito. La f {e il v} mancanti
all'alfabeto Fenicio (Encyclop. l.
c.) mancarono pure come vedemmo all'antico alfabeto latino.}
{{V. p. 2004.
2329. (e la p. 2371.
fine.}}
[1136,1] 3. E questa che son per dire è la ragione
principale. Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere,
quanto le lingue si allontanino
1137 immensamente dalla
loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e parlata da
un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o
qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si
possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e
perfezionata solo negli ultimi tempi dell'antichità. Giacchè l'epoca del suo
perfezionamento è quella di Cicerone. Ed
oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale
a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora
molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della
Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non
altro, assai vicino ai principii della lingua latina.
[1137,1] Ora per lo contrario la formazione e quasi
perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca
dell'antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un'epoca ancora
tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della scrittura greca che ci
rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura
1138 che si conosca: dico Omero. E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma
tale che non ha pari di pregio in veruno de' secoli susseguenti. Nè tale avrebbe
potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna dunque supporre
(come tutti fanno) avanti Omero, una
lunga serie di tempi e di scrittori ne' quali la lingua di rozza e impotente
divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i
Plauti, i
Lucrezi che precederono Omero,
non ci restano, come quelli che precederono Cicerone e Virgilio, {+e neppure si ha certa memoria di nessuno
di loro.} Anzi da Omero in su
ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. Vedi dunque la gran differenza
degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati con quelli
per la prima lingua latina. { Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la
stessa antichità della greca, e contuttociò un'antichità meno antica e
più vicina a noi.}
[1138,1] Io credo però che la ricerca di questa, ci farà
strada alla ricerca delle origini greche. Stante che la lingua latina è sorella
della greca, ed arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di
questa. O se il latino è derivato dal greco, certo n'è derivato in antichissima
età, e così verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest'antichissima
età della lingua greca. {V. p. 1295.}
[1138,2] Se è vera l'opinione del Lanzi
che la lingua
1139 Etrusca non sia fuori che un misto
dell'antichissimo latino e dell'antichissimo greco, detta lingua, e il suo
studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le
osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla
intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per
l'altra parte altrettanto interessante. (29. Maggio - 5. Giugno
1821.)